C'è qualcuno a Genova che conserva in un cassetto del suo studio un'ampollina con le ceneri di Cristoforo Colombo. L'ampolla, chiusa con un lembo di pelle, è sigillata con cera lacca rossa sulla cui superficie spiccano, per incisione, tre lettere dell'alfabeto: JBC. Ma cosa significa questa sigla, e come è mai possibile che un privato cittadino conservi nell'intimità della sua casa le ceneri di uno dei più grandi personaggi di tutti i tempi? Il proprietario della preziosa ampollina è un gentiluomo genovese che non desidera apparire. Nella sua casa sul mare accetta di buon grado di rispondere alle domande e spiega come è venuto in possesso della preziosa ampollina, ma nulla di più. Anche perché quei pochi grammi di cenere rossastra racchiusa nel vetro sono un ricordo di famiglia. E la storia viene da lontano, al di là dell'Oceano, durante una mattina del tardo Ottocento.
«Quel giorno - racconta il nostro ospite - il mio avo Juan Battista Cambiaso, ammiraglio, nativo e residente nell'isola di Santo Domingo, venne chiamato d'urgenza da un servitore del fratello che a quel tempo era console generale d'Italia nell'isola. Era il 10 settembre del 1877 e da diversi giorni una squadra di operai stava lavorando nella cattedrale alla ricerca dei resti di Cristoforo Colombo. Come si sa, il grande navigatore morì a Valladolid il 20 maggio del 1506 e nel 1537, dopo la morte del primogenito Diego Colombo Muniz, duca di Veragua e Grande di Spagna, la di lui vedova, Maria de Royas y Toledo, decise di trasferire i corpi di entrambi a Santo Domingo per adempiere alle ultime volontà dello stesso Cristoforo che desiderava riposare nel Nuovo Mondo. I resti di padre e figlio furono dunque caricati su una nave e tumulati in un punto non ben definito della cattedrale di Santo Domingo. C'è anche da dire che nel 1898, avendo perso anche l'ultima colonia nel Nuovo Mondo, gli spagnoli riesumarono i resti di quella che era ormai diventata la loro gloria nazionale e li riportarono in patria dove li sistemarono in una tomba monumentale nella cattedrale di Siviglia».
Ma allora come è possibile che ci fossero ancora dei resti a Santo Domingo?
«Il punto è proprio questo. I due fratelli Cambiaso, che appartenevano a un ramo della famiglia genovese trasferito probabilmente nel tardo Settecento a Santo Domingo, ritenevano che in qualche modo gli spagnoli si fossero sbagliati nel prendere i resti di Colombo. Ed è per questo che avevano convinto le autorità locali a intraprendere quella ricerca. E iurono fortunati. Perché quella mattina di settembre, scavando sotto l'altare maggiore, prima trovarono una vecchia bara con i resti di un certo Luigi Colombo, probabilmente un parente. Poi, andando più a fondo, saltò fuori una cassa di piombo al cui interno si trovavano 13 ossa grandi, 28 piccole e una pallottola di piombo. Sul coperchio, nella parte interna, c'era la scritta "Ilustrisimo y distinguido varòn, Don Cristobal Colon". Non solo: tra le ossa gli operai trovarono anche una placchetta d'argento con il nome dello stesso Colombo».
Dunque, secondo questa versione dei fatti, gli spagnoli si sarebbero davvero sbagliati?
«Non c'è dubbio. In ricordo del ritrovamento, che accertava Santo Domingo come sede della vera tomba di Colombo, le autorità locali donarono una piccolissima parte dei resti al fratello del mio avo, il console; un'altra parte più consistente al Comune di Genova, che ancora adesso la conserva in una teca a Palazzo Tursi, e il resto lo inumarono nella tomba monumentale che costruirono sull'isola e che chiamarono Faro a Colon. La si può visitare ancora adesso».
E quei resti come sono arrivati fino a lei?
«Il console italiano li regalò al fratello ammiraglio, appunto Juan Battista Cambiaso, il quale li versò in un ampollina che poi chiuse con la cera lacca apponendo il suo sigillo personale: JBC. Successivamente l'ammiraglio donò l'ampollina a sua sorella, Giuditta Cambiaso in Ventura, il cui figlio Miguel Ventura l'ha conservata tramandandola di generazione in generazione fino a me».
Ci sono documenti o prove che certifichino l'autenticità della scoperta e, quindi, di questi resti?
«Qui in casa mia, come posso farvi vedere, conservo ancora il documento ufficiale che venne preparato in quell'occasione per mostrare le varie fasi della scoperta. Il tempo vi ha lasciato il segno, ma si legge ancora tutto. Inoltre ho anche le dichiarazioni giurate dei miei avi che raccontano come si sono svolti i fatti e come sono entrati in possesso dei resti».
Lei si rende conto che, stando così le cose, gli scienziati dell'Università di Granada che stanno analizzando i resti conservati nella cattedrale di Siviglia, sono del tutto fuori pista...
«Infatti gli spagnoli a Siviglia con ogni probabilità conservano le ceneri del figlio Diego, e non di Colombo. I veri resti di Colombo sono rimasti a Santo Domingo».
C'è anche un'altra considerazione da fare: se Santo Domingo non dovesse autorizzare l'esame dei resti, come in un primo tempo sembrava, il Dna di Colombo potrebbe non trovarsi mai.
«A meno che gli spagnoli non chiedano di esaminare i resti conservati a Tursi. Quelli sono autentici. Dubito, però, che il Comune di Genova accetti di disfarsi di una simile reliquia».
Le spoglie di Colombo, come l'intera vita del navigatore, sono avvolte nel mistero. Santo Domingo, Siviglia, ceneri a Genova e a Pavia. Al solito tutto è possibile, fermo restando che, per quanto ci riguarda, visto il desiderio in morte dell'Ammiraglio, restiamo convinti che la maggior parte dei suoi resti si trovi nell' isola caraibica. Quanto a questa urna le sigle possono essere Giovanni Battista Cambiaso o anche, nemmeno a farlo apposta, Giovanni Battista Cybo.