Tratto da Liberal pp. 128-135
Un giorno o l’altro mi deciderò a scrivere un libro autobiografico-professionale sul mio lavoro: e, parafrasando il capolavoro del grande Lévi-Strauss, lo chiamerò Tristi storici. In realtà guadagniamo poco ma, quando facciamo le nostre cose con serietà, con passione e un po' di humor, ci divertiamo un sacco, impariamo tante belle cose, giriamo il mondo con la scusa dei congressi internazionali e insomma - beghe accademiche a parte - i più intelligenti fra noi sono contenti di quel che fanno. Salvo per una cosa: soprattutto in Italia. Unici tra i professionisti (insieme forse con i poeti), non siamo protetti da alcuna «esclusiva». Sarà anche giusto, ma è penoso. Mi spiego meglio. Ricevo di continuo manoscritti da leggere e vengo assalito dappertutto (anche in treno e al ristorante), da giornalisti, ragionieri, penalisti, odontoiatri, stagnari e ciabattini: tutti hanno nel cassetto un dotto saggio storico da farmi leggere e da pubblicare, tutti se la prendono - mentre si rivolgono a uno storico «accademico» magari pessimo, ma pur sempre tale - con gli storici appunto «accademici», che non hanno mai capito questo o hanno sempre nascosto per loro loschi fini la verità su quest'altro. Tali solerti, entusiasti e perspicaci amateurs d'histoire (che spesso, nel loro prezioso cassetto, conservano anche delle belle poesie...) sono convinti d'aver capito tutto su questo o d'essere in grado di svelare il Mistero su quest'altro. Il guaio è (che io e i miei colleghi non siamo in grado di render loro la pariglia. Perché se io confidassi a ciascuno di loro di aver scritto un dotto e risolutivo saggio sulla tecnica della comunicazione nell'era dell'informatica, sulle problematiche della partita doppia relativa ai rendiconti fiscali, sulla genesi della penalistica francese durante la Terza Repubblica, sulla patologia dei premolari superiori nonché sulle nobili arti del riparar tubature o calzature, sarei giustamente trattato da illuso, da velleitario, da presuntuoso, da incompetente maneggione e pasticcione. Perché io capisco perfettamente che tutti i loro mestieri sono complessi e che non basta una vita interamente dedicata a ciascuno di essi per farli davvero bene: ma loro si rifiutano coralmente di pensar la medesima cosa del mio. Per esser buoni storici, basta ricordarsi un po' di Bignami, aver acchiappato qualche idea qua e là, aver letto o anche solo orecchiato un po' di libri qua e là, magari essere abbonati al Giornale dei Misteri, et voilà...
Purtroppo, come diceva don Giovanni, io son per mia disgrazia uom di buon cuore: e, più che irritarmi o indignarmi, la cosa mi diverte. In fondo, è un fatto che la ricerca storica vera è in crisi, che si tagliano di continuo i fondi a essa destinati, che un sacco dei nostri ragazzi più promettenti vanno all'estero per continuar a studiare: e allora perché non stare al gioco per recuperare in termini di mass media quel che si è perduto in termini di spazio istituzionale, fosse pure per star al gioco - accettare il diktat che la storia è quella cosa fatta di piramidi egizie, di Templari, di Santo Graal, d'inquisizione e di «nazismo magico», visto che gli amateurs prediligono appunto quasi esclusivamente tali temi? Però, forse un po' di moderazione e un po' più di fantasia anche da parte loro non guasterebbe.
Ho molta simpatia per Ruggero Marino, esperto ex giornalista de Il Tempo, uomo cordiale e generoso, scrittore esperto e prolifico, innamorato cultore della storia di Cristoforo Colombo a proposito della quale - come, lo confesso, spesso accade ai veri e grandiamateurs - certamente conosce un sacco di aneddoti e di particolari più del più esperto tra gli storici di professione (figurarsi di me). Solo che - esattamente come succede a me, storico, quando faccio il giornalista, pur essendo iscritto all'Elenco Pubblicisti da più d'un ventennio - manca di cognizioni professionali circa i metodi e le tematiche della ricerca storica: e non le conseguirà mai per la semplice ragione che, per fare uno storico passabile (come per far un qualunque passabile professionista, in qualunque professione), ci vuole una vita intera. Con tutto ciò, non dimentico mai che spesso le autentiche scoperte, i veri scoops, li fanno i dilettanti, non i professionisti. Conosco seri e valorosi archeologi che, in tutta la loro irreprensibile carriera scientifica, hanno scoperto sì e no qualche coccio e un paio di brutte monetine di rame: invece, le rovine di Troia e le tombe dei principi di Micene le scopri Heinrich Schliemann, un dilettante pasticcione armato solo della sua passione per l'Iliade. Ciò non toglie che Schliemann sbagliasse date e attribuzioni, che confondesse irrimediabilmente gli strati archeologici con i suoi scavi dissennati e via dicendo: e che bisogna aver il triste e noioso coraggio di ammettere che, a quel che di solito si definisce il progresso degli studi, hanno contribuito di più i tanti onesti e mediocri archeologi collezionatori di cocci e di monetine che non il glorioso responsabile del maxi-scoop della collina di Hissarlik. Non mi meraviglierebbe pertanto se Ruggero Marino avesse ragione su tanti fra i problemi ch'egli propone a proposito dello scopritore del Nuovo Mondo in Cristoforo Colombo, l'ultimo dei Templari. La storia tradita e i veri retroscena della scoperta dell'America (Sperling e Kupfer, XIII-343 pagine, 18,00 euro). Sono tante le cose che ancora non sappiamo, che non sapremo mai: e il mio richiamo alla professionalità non va certo inteso come pretesa di esclusività. la verità è patrimonio di tutti ma non è esclusiva di nessuno. Solo che qui non si parla della verità obiettiva, che per definizione - quando non la si consideri sotto il profilo della metafisica - è inconoscibile e irraggiungibile: Quid est Veritas?, chiese una volta un procuratore imperiale di Giudea a un oscuro agitatore galileo venuto a Gerusalemme a far casino; e l'agitatore non seppe, o non poté (o, come io credo perché di quell'agitatore sono un tardivo seguace) rispondere. Qui si parla dell'unica verità che sia in ballo quando si scrive di cose storiche, vale a dire della verità storica: che muta a ogni mutar di generazione, a ogni svolta della nostra sensibilità culturale e del nostro patrimonio erudito, a ogni incendiarsi d'archivio, a ogni nuova scoperta tecnologica che riesca a far parlare fonti e reperti fino a un istante prima inerti e muti. E sarà duro, sarà disperante, ma non v'è scelta: chi vuol parlare di storia accetta implicitamente di scendere su questo piano, deve irrimediabilmente misurarsi con la costruzione di questo tipo di verità. Ruggero Marino non è più giovanissimo e ha alle spalle una bella, intensa carriera giornalistica. Nessuno gli rimprovera quindi il fatto di non disporre di competenze in fatto di paleografia, di diplomatica, di archivistica, di sfragistica, di cartografia storica, di filologia classica e romanza, di storia delle istituzioni e di tante altre discipline per aver competenze appena sufficienti in alcune delle quali bisogna aver affrontato anni e anni di tirocinio. È normale che egli non se ne intenda: fa ottimamente un altro lavoro. Solo che, quando di tali competenze non si disponga e si commetta l'imprudenza d'affrontar temi per adeguatamente trattar i quali esse sono tutte indispensabili (e occorrerebbe quindi, come di fatto occorre, il lungo lavoro in équipe di molti specialisti...), si è costretti a ricorrere al bricolage: qualche libro qua e là, imbattendosi talor in ottimi studi e talaltra in deprecabili bufale. E allora si hanno molte intuizioni anche intelligenti e spiritose ma purtroppo ametodicamente disposte e sviluppate; ci si abbandona a giochi d'incastro fondati su analogie e coincidenze simboliche o numeriche o calendariali di per sé magari curiose e divertenti ma irrilevanti (si legga l'incredibile sequenza simbolico-indiziaria su Genova, alle pp. 29-31); ci si dà a rilievi eruditi e polemiche umorali sparsi qua e là, un po' come i ragazzini di ~ dispettosi che vedano, al di là d'invalicabili cancellate, fanciulli viziati giocar stolidamente in ben pettinati giardini ignari e quasi certamente indegni della fortuna toccata loro, e contro quegli immeritevoli privilegiati lancino turpiloquianti ingiurie e maleolenti proiettili. Ebbene: di fronte agli storici pigri e ignavi ma ohimè ciò nonostante competenti, chiusi nella turris nemmeno più troppo eburnea delle loro dotte ricerche alla Vaticana, all'Ecole des Hautes Etudes o a Harvard, il ragazzaccio Marino si comporta esattamente come i suoi colleghi ragazzacci di strada: e io, ex-ragazzaccio di San Frediano, sono sentimentalmente con lui. Tuttavia, per dovere professionale e amor di scienza, non posso condividere il suo punto di vista.
Insomma, e in sintesi: fondandosi sui suoi lavori precedenti e su una serie d'indizi più che non di prove documentarie e d'ipotesi distruttive di presunte tesi altrui o di consolidate «verità» storiche (o di quel ch’egli ritiene consolidata «verità»), Ruggero Marino afferma che il merito della scoperta del Nuovo Mondo va a Papa Innocenzo VIII, il genovese Giovanni Battista Cybo, piuttosto che ai re cattolici; che Colombo sarebbe figlio del Cybo, che lo avrebbe avuto quindi a diciannove anni, nel 1451 (il che non è affatto inverosimile sul piano cronologico: ma è tesi portata avanti attraverso l'assemblaggio d'indizi piuttosto fragili...) e che il Papa avrebbe finanziato il navigatore (si vedano le risentite ma documentariamente inconclusive considerazioni delle pp. 292-93); che il viaggio del 1492 alla volta del Nuovo Mondo non sarebbe stato affatto il primo e che il navigatore genovese conosceva già bene alcune delle terre che avrebbe «scoperto» ufficialmente solo in quella circostanza; che la conoscenza del continente poi chiamato America, insieme con altre conoscenze geografiche, era già diffusa nei secoli precedenti, per quanto non si sa perché sempre celata o negata, com'è ovviamente provato dalla celebre per quanto ancor enigmatica carta dell'ammiraglio turco Piri Reis, da molti fra testi e leggende medievali e naturalmente (dulcis in fundo o cauda venenum, fate un po' voi... ) dai soliti Templari. Perché ohimè, e lì ti volevo, c'entrano anche loro. Marino sa bene quel che penso delle sue ricerche perché già mi ha fatto l'onore di chiedere il mio parere, anche se poi ha sempre continuato ad andar per la sua strada e in fondo ha fatto bene. Mi sarebbe facile cavarmela, per fargli piacere e assicurarmi il mantenimento della sua amicizia, con qualche generica e poco impegnativa lode alla sua generosità intellettuale, alla sua simpatica irruenza, alla sua torrenziale ed entusiasta erudizione. Magari tali doti si trovassero più spesso presso i tiepidi e pedanti storici di mestiere, gente troppo sovente dedita a dissodar per tutta la vita il suo campicello metodologico o archivistico, a masticar tre documenti e a scriver stitica robuccia per vincer concorsi, meglio se domesticamente arrangiati. Ma, se così facessi, verrei purtroppo meno ai miei doveri professionali. Facilissimo poi mi sarebbe darmi invece al carognesco, sadico esercizio della stroncatura: quella cosa spocchiosa e viperina che i miei pari fanno spesso ai danni dei libri degli amateurs, in genere anzitutto e soprattutto rei di vender più dei loro e di finir presentati in tv quando i loro, al massimo, debbono accontentarsi dell'Accademia Frusinate di Scienze, Lettere e Arti. Perché Marino, diavolo d'un uomo, di scivoloni ne commette parecchi, e tutti non casuali (di errori, per carità, ne facciamo tutti): voglio dire che essi sono quasi sempre una prova di più che storici non ci s'improvvisa, e che quando un lavoro non si sa fare può anche succedere di aver ragione su questo o su quel punto, ma il lavoro finisce con il venir male comunque. Non si può sostener impunemente che la conoscenza della sfericità della terra, come avevano compreso gli antichi, non fosse condivisa nel cosiddetto «Medioevo», e che allora la si credesse piatta per quanto anche allora qualcuno avesse avuto sentore della verità: senza scomodar Aristotele e Tolomeo, già sufficientemente conosciuti anche grazie alle traduzioni dal greco attraverso l'arabo e l'ebraico fin dal Dodicesimo secolo, basterà rinviare ad Averroè e a Tommaso d'Aquino, basi sicure di Dante. Siccome c'è ancor oggi fior di gente «colta» che insiste su questa storia della terra creduta piatta nel Medioevo, vien da chiedersi a che cosa stessero pensando tali signori alla scuola media superiore, quando veniva loro spiegata la Divina Commedia. Che Colombo fosse convinto che la terra fosse sferica perché, forse, il francescano Raimondo Lullo lo aveva rivelato a un suo antenato di nome Stefano (p. 21), è supposizione indiziariamente ingegnosa ma del tutto pleonastica sotto il profilo storico. Se il morente fra' Raimondo avesse detto una cosa del genere a messer Stefano, quegli avrebbe replicato che si stava scoprendo l'acqua calda e sfondando usci aperti. E così via: Nestorio, citato a p. 276, patriarca (non vescovo) di Costantinopoli, è un personaggio del Quinto secolo, non del Cinquecento (un lapsus che scopre una sistematica mancanza di familiarità con il linguaggio cronologico); il Saladino, vale a dire Yussuf ibn Ayyub Salah ed-Din, personaggio del Dodicesimo secolo, non è affatto la stessa persona di suo nipote al-Malik al Kamil, sultano d'Egitto, che s'incontrò con Francesco d'Assisi e con Federico II negli anni Venti del Duecento (p. 19); il Papa che promosse e per sua disgrazia dovette poi obtorto collo legittimare l'infame quarta crociata fu Innocenzo III dei conti di Segni, non Innocenzo Fieschi (p. 31); i cavalieri del Santo Sepolcro, nonostante quel che alcuni di loro vogliono oggi far credere, non sono mai stati un Ordine religioso-militare (p. 31); Gerolamo Savonarola era un ferrarese figlio d'un celebre medico padovano, non un fiorentino (ibidem); Arnolfo di Cambio e Filippo Brunelleschi, non Giovan Battista Alberti, sono i costruttori della cattedrale fiorentina di Leon Battista Alberti (p. 123); la lettera di Pio II al sultano Maometto II è - come ha impeccabilmente dimostrato Luca D'Ascia in un bellissimo studio, Il Corano e la Tiara - un esercizio stilistico-controversistico scritto a fini politici interni (una suasoria per la crociata indirizzata di fatto ai principi cristiani) e il suo invito alla conversione del sultano un esplicito paradosso, non «un'apertura incredibile da parte di Roma nei confronti dell'Islam» (pp. 12-13); Lepanto non fu affatto una «definitiva sconfitta dei musulmani» (p. 13), bensì una battaglia perduta dai turchi nel quadro d'una guerra, quella di Cipro del 1570-72, ch'essi vinsero; la corte pontificia nel secolo Quindicesimo non si può indicare con l'espressione «il Vaticano», del tutto anacronistica in quel tempo (ibidem).
A parte quel che da un simile florilegio - che potrebbe andar avanti per le lunghe - si deduce sulle cognizioni storiche e sulla preparazione generale dell'autore (perché, ripeto, qui non si è dinanzi a semplici lapsus) vien da chiedersi a che razza di lettore (tutti gli editori ne hanno almeno uno) affidi i manoscritti la Sperling e Kupfer. Vero è tuttavia che si possono avere lacune enormi nelle cognizioni storiche generali e nonostante ciò aver ragione su alcune questioni particolari intensamente frequentate. Quel che indispone però in questo libro non è l'entità e la quantità degli errori, tanto più irritante se la si confronta con la costante tendenza che Marino dimostra di mettersi in cattedra e di bacchettar sulle dita gli storici di professione (i quali peraltro le bacchettate sovente se le meritano, eccome: ma per altri motivi). E’ la quantità, appunto, delle porte aperte sfondate e l'ostinazione nello scoprir l'acqua calda. L’autore confonde, non senza una qualche arroganza, le cose ch'egli ignora per sua disinformazione con quelle che è la comunità degli studiosi a ignorare, e attribuisce a essa la propria ignoranza. C'informa per esempio, come se l'avesse scoperto lui, che Colombo era un cultore di profezie e che tutto il periodo finale del cosiddetto Medioevo ne rigurgitava: ebbene, sappia che lo sapevamo, se non altro perché al riguardo ce ne avevano esaurientemente informati - a non ricordarne che alcuni - la Reeves, il Cohn, il Rusconi e molti altri, dalla frequentazione dei lavori dei quali anche il suo avrebbe tratto giovamento. Allo stesso modo, che nel mondo medievale si parlasse delle isole dell'Oceano, della terra australis incognita, degli Antipodi e tutto il resto, e come sia possibile che marinai e cartografi avessero raccolto molte notizie su terre al di là dell'Atlantico e che certe leggende celino il ricordo di casuali approdi (leggenda di San Brandano, mappa di Vinland eccetera), è cosa straconosciuta dagli specialisti per quanto irta - e qui l'autore ha ragione - di problemi irrisolti e spesso evitati, se non altro perché le fonti a nostra disposizione sono poche e insicure: il che può far anche moltiplicare le ipotesi, ma impedisce la costruzione di tesi scientificamente plausibili. Sarebbe bastato che Marino desse un'occhiata al ricchissimo apparato bibliografico dell'edizione adelphiana del Milione o a quella, preziosa, che Gioia Zaganelli ha fornito della «Lettera del Prete Gianni», o si fosse guardato con attenzione la bella edizione einaudiana del Ramusio, per rendersi conto che molti dei «misteri» ch'egli richiama e sui quali s'intrattiene non sono per nulla tali, o quanto meno restano realtà sulle quali molto ancora c'è da indagare ma sulle quali esistono intere biblioteche specialistiche e l'impegno euristico prosegue intenso. Il sentir parlare di «re» Renato d'Angiò, l’eroe di Johan Huizinga e di Françoise Piponnier, come di un «enigmatico e misterioso francese» (p. 33) semisconosciuto della medievistica, farà sobbalzar tutti i filologi romanzi e gli iconologi del mondo, da decenni in contemplazione del Livre des tournois e del Livre de Coeur d'Amour épris. Quanto a Innocenzo VII, visto che lo stesso Marino conosce in effetti - e me ne compiaccio - gli eccellenti studi sulla dignità pontificia di Paravicini Bagliani e di Carocci (gli succede del resto spesso d'imbattersi in buoni libri, come quelli di Philip Mansel, di Claudio Finzi e di altri, e di far delle buone anche se insufficienti letture: il punto è che rischia di continuo con metterle sullo stesso piano di autentiche bufale o di scritti irrilevanti, altro elemento tipico dei dilettanti), mi chiedo perché egli continui a parlare di una damnatio memoriae. Sottovalutazione, può darsi: ma ce ne corre. Insomma, come dicono i lombardi, offelée, fa el to' mestée. Il che non significa affatto - ci mancherebb'altro! - che interessi e passioni siano proibiti ai «non addetti ai lavori» e che spesso il loro contributo non possa essere utile. Solo che esso dev'esser gestito sempre con umiltà, senza pregiudizi, tenendo presente che gli specialisti possono ben sbagliare (e sbagliano spesso) che sono talora poco aperti e magari perfino poco intelligenti, ma che in definitiva non c'è mestiere che non abbia i suoi segreti senza la conoscenza dei quali lo si esercita male. Peggio poi, nello specifico della storia, quando per riempire certi vuoti ci si affida alla deprecabile scorciatoia del Mistero, seguendo le quasi sempre fallaci e spesso ridicole orme di esoteristi e occultisti, tanto più pericolosi oggi perché vanno di moda. È una vecchia legge: la mela marcia guasta il paniere, la moneta cattiva scaccia la moneta buona. Quando non si dispone di sufficienti cognizioni specifiche, si rischia di cader nelle trappole dei paltonieri contaballe, dei cercasegreti confusi e semplicisti, degli stolidi visionari. A Marino càpita addirittura di prender sul serio l'infausto Il Santo Graal di Baigent, Leigh e Lincoln e quindi l'ormai screditata balla del «Priorato di Sion»: una falsificazione screditata da un trentennio e alla quale probabilmente non ha mai creduto nemmeno Dan Brown, che pur ci ha fatto sopra beato lui un sacco di soldi. E gli accade addirittura di ceder alla tentazione di dar credito alle solenni scempiaggini scritte da alcuni sconsiderati sui Templari in America, sul loro tesoro nascosto e assurda robaccia del genere.
Se Marino si fosse affidato con un po' di rigore alle pagine che sull'Ordine del Tempio hanno scritto, che so, anche di recente Alain Demurger e Barbara Frale, si sarebbe agevolmente reso conto che i fratres del Tempio non hanno mai battuto moneta d'oro, che da dove veniva il loro argento lo sappiamo benissimo, che le loro ricchezze non erano affatto di sconosciuta e inesplicabile origine nonostante le dicerìe, che già nel Duecento correvano, che il sigillo del Secretum Templi che reca effigiato un «amerindio» è una menzogna, che quella dei Sinclair e della cappella di Rosslyn (roba da Codice da Vìnci: ancora!) è un altro papocchio, e la generica, indiscriminata allusione al «paganesimo», all'«eresia», all'«esoterismo» e alla «Massoneria» (p. 176) è un intollerabile, indigesto fritto misto che non ha scientificamente parlando alcun senso proprio perché gli studi sulla tradizione ermetica fra Quindicesimo e Diciottesimo secolo sono ormai arrivati a livelli di approfondimento e di raffinatezza che non si possono ignorare quando si vogliano affrontare certi argomenti. Un consiglio: dia un'occhiata al Dictionnaire critique de l'ésotérisme edito a cura di Jean Servier (Paris, P.U.F, 1998) e capirà in che ginepraio si caccia chiunque tratti cose del genere senza preparazione adeguata. Altrimenti si finisce nelle edicole delle stazioni ferroviarie, magari si vende qualche centinaio di copie in più: ma si fu un pessimo servizio sia alla propria immagine, sia alle cose che pur si studiano con tanto affetto ed entusiasmo.
E a puro titolo d'esempio affronterò un po' più analiticamente una fra le topiche più evidenti di questo libro: quella della flotta templare che al momento della persecuzione contro l'Ordine scatenata da Filippo IV di Francia «prese il largo e non fu più trovata» e del «principe Henry Sinclair, conte di Saint Clair delle Orcadi, il quale allestì una flotta di dodici (!) navi, con il denaro dei Templari, nel Nuovo Mondo. La spedizione, guidata dai veneziani fratelli Zeno, ... approdò nella Nuova Scozia. Esplorò la costa orientale degli odierni Stati Uniti, prima del 1400» (pp. 175-176). Andiamo, Marino: un po' di senso critico! Non si possono prendere come oro colato - riferendole come fatti davvero avvenuti - balle trovate in libri come quelli di Jacques De Mathieu, I Templari in America (Piemme 1998, pp. 25, 38-39), di Christofer Knight e Robert Lomas, La chiave di Hiram (Mondadori 1997, p. 322), di Steven Sora, Il tesoro perduto dei Templari (Piemme 1999, pp. 74, 89, 127-128), senza nemmeno darsi la pena di riveder loro le bucce: e sarebbe bastato un colpo d'occhio alle «fonti» - si fa per dire - su cui questa letteratura-trash si fonda per dedurne, con un po' non dico di senso storico ma soltanto di buon senso, che si tratta di fanfaluche del tutto prive di credibilità. Quanto alla «flotta templare», che il Tempio avesse qualche nave lo sappiamo (dai tempi del mercante veneziano Romano Mairano, che ci faceva degli affari, fino a quelli di Roger de Flor, che giovanissimo vi navigò e che, dopo lo scioglimento dell'Ordine, fondò la «Compagnia catalana», come racconta il cronista Ramon Muntaner), e dopo il 1291, trasferiti da Acri a Cipro, i fratres dovevano per forza aver rafforzato il loro potenziale nautico: ma da qui a ipotizzare una flotta intera scomparsa ce ne corre. Fra l'altro, che cosa si vuol insinuare: che quelle navi avrebbero preso il largo verso l'Atlantico? Galee o naves del primo Trecento, ancora a velatura fissa e con gli strumemi nautici e cartografici del tempo, che non consentivano la navigazione d'altura (e si pensi alla fine della spedizione dei genovesi Vivaldi nel 1291)? Ma come si fa a prestar fede a stupidaggini del genere? Il peraltro dubbio argomento del viaggio dei fratelli Zeno del 1390, oggetto com'è noto anche degli itinerari nautici, ai nostri giorni, della skipper elbana Laura Zolo, resta un enigma: il che tuttavia non autorizza a mischiarci i Templari legittimando le storielle diffuse dalla statunitense Henry Sinclair Society, cui Marino tranquillamente abbocca. La truffa storica, fondata su qualche lettera e una carta attribuita agE Zeno e su un loro forse effettivo viaggio alla volta della Groenlandia, fu messa insieme da un discendente della celebre famiglia veneziana, che in una pubblicazione anonima uscita a Venezia nel 1558 organizzò un papocchio servendosi anche di lettere di Colombo e attingendo soprattutto ai viaggi di Jeronimo Aguilar - che aveva fatto naufragio in Giamaica nel 1511 - e alla nota Carta Marina di Olaus Magnus dei 1539, conditi da fantasiosi toponimi («Estotilanda», «Drogeo»), è stata sin dalla fine dell'Ottocento chiarita dal cartografo Fred W Lucas nello studioThe Annals of the voyages of the brothers Nicolo and Antono= Zeno in the North Atlantic about the end of the Fourteenth Century, and the claim founded thereon to a Venetian discovery of America: a cirticism and an indictement, edito a Londra nel 1898. Non è che gli storici siano sordi (Marino ci accusa di esser custodi di «un'ortodossia che non vuole sentire ragioni», p. 177: gli «studiosi ... continuano a fare orecchie da mercante», p. 319) dinanzi alle affermazioni dell'antropologo norvegese Thor Heyerdahl e del cartografo svedese Per Lillienstrom. Il fatto è che tali personaggi saranno anche competenti nelle loro discipline, ma come «storici» non lo sono altrettanto: lo prova il fatto che Heyerdahl sosterrebbe, stando alla rivista Hera, n. 14, febbraio 2001, p. 13, che il corpo di spedizione norvegese alla prima crociata (a proposito del quale siamo esiguamente informati, ma ch’è stato comunque studiato) sarebbe stato forte di ben 10 mila crociati (non è neppure sicuro che tutti i crociati del 1096-99, nel loro insieme, abbiano raggiunto una cifra come quella, pari a circa il doppio degli abitanti d'una città come Pisa in quegli anni) e che avrebbe passato verso il 1100 lo Stretto di Gibilterra. Peccato solo che alla fine dell'Undicesimo secolo gli scandinavi, per raggiungere il Mediterraneo, non bordeggiassero le coste del Mare del Nord e dell'Atlantico fino alle Colonne d'Ercole, ma usassero di solito la «Via dell'Ambra» tra il Mar Baltico e i grandi fiumi russi fino al Mar Nero; e che, per trasportar l'assurda cifra di 10 mila uomini a quel tempo sarebbe stata necessaria una flottiglia di più di cento navi dell' epoca. Mai sentito parlare dei rapporti tra mondo scandinavo e Bisanzio tra Nono e Undicesimo secolo? Certo, i normanni erano entrati nel Mediterraneo con i loro drakkar dalle Colonne d'Ercole tra Nono e Decimo secolo, al tempo delle loro incursioni. In effetti, quanto a crociate o a pelle-grinaggi scandinavi tra Undicesimo e Dodicesimo secolo, bisogna distinguere tra la spedizione del principe norvegese Sveno, che dovette incontrare i crociati a Costantinopoli e prese poi parte all'assedio di Antiochia del 1098 (cfr. C. Krötzl, Pilger, Mirakel und Alltag, Helsinki 1994), ma del quale si sa poco, e la spedizione di re Sigurdrh Magnusson detto «Jorsalfar» («colui che ha viaggiato a Gerusalemme»), che nel 1108 partì con una sessantina di navi e attraverso appunto Mare del Nord e Stretto di Gibilterra, navigando sottocosta e fermandosi in Galizia per fare il suo pellegrinaggio a Santiago de Compostela, raggiunse effettivamente la Palestina e aiutò il re di Gerusalemme Baldovino I ad assediare alcune città musulmane del litorale. Può darsi che il fantasioso riferimento di Heyerdahl attribuisse alla fine della seconda crociata un episodio in realtà accaduto un decennio circa più tardi, al viaggio di ritorno di Sigurdrh, del quale però non si sa nulla (ancora di crociate parla una saga della metà del Dodicesimo secolo, i dati della quale sono stati spesso retrodatati di mezzo secolo): inutile insistere sull'assurdità dei 10 mila crociati, per trasportare i quali alla fine dell'Undicesimo secolo sarebbe stato necessario più di un centinaio di navi; a parte il fatto che in tutta la Norvegia due secoli dopo, alla fine del Duecento (vale a dire al culmine dell'incremento demografico raggiunto nel Medioevo, che sarebbe stato superato solo nel Settecento), non si arrivava al mezzo milione di persone in tutto, secondo i calcoli peraltro molto insicuri (perché le fonti non consentono maggior precisione) di A Schück, Befolkning under Madeltinden, Stockholm 1938. Insomma, dei dati cui l'autore si riferisce con tanta sicurezza non ne torna uno. Veda, Marino, non è che gli storici facciano "orecchie da mercante" dinanzi a stupidaggini di questo genere: è proprio, mi creda, che abbiamo un sacco di cose più serie da fare. Lei, da giornalista, presterebbe fede, per far un esempio, a un microbiologo il quale venisse a raccontarLe di aver le prove certe che Montanelli era un extraterrestre? E, se non rispondesse alle reiterate affermazioni di quel tale, si riterrebbe per questo uno che fa "orecchie da mercante"?
E allora, mi si chiederà arrivati a questo punto, perché ho perso tanto tempo e scritto tanto su un libro come questo? Per crudele «accanimento recensorio» di professore? Tutt'altro. Ma solo perché di tanto in tanto bisogna pur dare uno stop alla simpatica irruenza degli amateurs prima che si trasformi in arroganza e tragga in inganno tanta parte del pubblico cosiddetto «colto», come ohimè già tante volte è accaduto perché dinanzi alle loro fantasie esso non dispone di strumenti critici e il nostro silenzio viene interpretato come assenso o come resa. Ruggero Marino, lo ripeto, è simpatico, e dal canto mio mi sono sempre dimostrato disponibile nei suoi confronti: nei limiti del mio tempo, s'intende. Quel che ho scritto qui non dev'essere interpretato come una sorta d'intimidazione accademica: ci mancherebbe. Anzi, egli deve continuar a occuparsi del suo Colombo, che ama: tra noi troverà sempre chi sarà disposto a dargli una mano; non tutti noi «accademici» siamo degli spocchiosi mediocri e molti di noi hanno ben chiaro che, se è vero che per far ricerca occorre un'attrezzatura professionale, non meno vero è che essa è un patrimonio di tutti dal quale nessuno dev'essere escluso. Esorto Marino a continuar a studiare i viaggi del futuro «Almirante del Mar Oceano» prima del fatidico 1492, i suoi rapporti con Innocenzo VIII e tante altre cose che gli interessano e sulle quali molto si è studiato e tuttavia moltissimo resta forse ancora da dire, come sulle conoscenze medievali relative all'Atlantico e sulla cartografia trecentesca e primoquattrocentesca. S'interessi più a fondo, se vuole, dell'ipotesi dell'arrivo sul continente americano attraverso il Pacifico, di vascelli cinesi (non è impossibile: come non lo è dell'arrivo, attraverso l'Atlantico, di drakkar vichinghi) e magari dell'effettiva identificazione di Cipango: ma anche qui ce ne vogliono di conoscenze scientifiche per trattar argomenti tanto delicati! Lasci comunque perdere Templari, esoterismo e temi graalici, tutta spazzatura à la mode frutto di semicultura e di sottocultura che non porta da nessuna parte; e usi cautela di fronte a questioni storiche generali per affrontar le quali occorre una competenza che gli storici, anche quelli mediocri, detengono perché è il loro mestiere, non il suo.