All’indomani della strage di Charlie Hebdo avevamo detto tutti: “Je suis Charlie”. Un modo di partecipare all’assurdità di una tragedia che ci aveva colpiti e in seguito alla quale sentivamo il bisogno di mostrare la nostra solidarietà. Come noi un’infinità di persone. Tutto era nei tre colori della Francia. E’ dura, duole, ma bisogna pentirsene a fronte delle nuove imprese di quel foglio che pretende di essere satirico? Prima la vignetta sulle vittime del terremoto, che era già un affronto alle morti, alla sofferenza, alla disperazione. Ora addirittura quella sulla valanga che ha travolto l’hotel di Rigopiano in Abruzzo. Con uno scheletro che scende sugli sci con due racchette-falce e il fumetto che allude alla neve che non basta per tutti. Satira? Un gusto macabro, un compiacimento necroforo. Degno di un horror. L’avrebbero mai concepita e apprezzata quell’immagine offensiva e crudele, lontana da qualsiasi forma di umanità e tanto meno di sensibilità, se sotto quella mortifera tomba bianca ci fosse stato un loro figlio? Si può ridere, si può concepire di fare satira su vite stroncate in quel modo? Vite persino di bambini innocenti. In una sorta di vampirismo vignettistico, che grida vendetta. Noi partecipiamo al loro strazio, loro si divertono al nostro. Togliendoci per il futuro la voglia e lo slancio empatico di poter dire “Je suis Charlie!”. Se dovesse essere questo il risultato del fare satira meglio porre un freno alla libertà di satira. Che non può essere mai quella del beffarsi, sfiorando il gioire, delle disgrazie altrui.
All’estrema destra la risposta di un vignettista italiano.