Non mi vergogno: ho sempre seguito il Festival di Sanremo. Due volte anche in presenza come inviato del mio giornale: Il Tempo. Lo trovo un termometro dei tempi e la barra della navigazione del Paese e della società.
Una sorta di inconscia seduta psicoanalitica mascherata dall’allestimento di un baraccone, che cerca di soddisfare tutti i gusti di un vastissimo pubblico. Un Festival dove una volta prevaleva la canzone, regina oggi più che mai subordinata alla prevalenza dei corpi e del look. l’esibizione nel senso di esibizionismo paga ormai più della voce. Mentre si canta sempre tanto di amore. In un equilibrio fra i sessi diventato però quanto mai precario. Anzi “fluido”. Così mentre i maschietti, timorosi delle posizioni che vanno perdendo, mostrano i bicipiti (mai vista tante braccia nude) le femminucce, diventate guerriere, sfoderano cosce come baionette. E il duello continua a colpi di scollature: profonde quelle delle donne, soccombenti però al fatto che gli uomini possono mostrare anche i capezzoli. L’unico punto di incontro pare sia quella di coprire la pelle di scarabocchi. Quasi che la patente del canto si possa avere solo tatuandosi, quasi l’appartenenza ad una tribù. E la deriva prosegue persino con i direttori d’orchestra. Eravamo abituati alla compostezza e all’eleganza, ora sembrano in gran parte coatti partoriti da un quartiere di periferia. Il resto? Il resto come dice Bennato sono solo canzonette. Che ci imporranno, con un testo demenziale, un’estate di “cuoricini, cuoricini, cuoricini”.