IL FESTIVAL DEL NON CI RESTA CHE PIANGERE
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Il Festival di Sanremo è l’icona popolare di un paese alla deriva. Faccio parte dei milioni di italiani vaccinati e forzosamente rincoglioniti, loro malgrado, che ogni anno seguono l’evento, nella speranza di passare quattro giornate di leggerezza che ci allontanino dagli incubi ormai quotidiani. Speranze quest’anno decisamente malriposte, Amadeus, sotto l’aspetto ridanciano e bonario, ha allestito un cocktail quanto mai furbetto occhieggiando a tutte le frange possibili di pubblico. Una Ornella Muti con gli zigomi che schizzano infuori come la coscia ancora levigata per i nostalgici, insieme a Morandi, Ranieri, Zanicchi, Berti. Berrettini per gli sportivi, più uno stuolo di improbabili facce e voci nuove che si caratterizzano nella gara al capello scapigliato e ad un look spesso a mongolfiera, come se fossero qualche taglia al disotto dell’abbigliamento. Con in più un patetico predicozzo sul razzismo di una smarrita ragazza nemmeno tanto di colore. Salvo poi vendersi come “scoop” incredibili le uscite fuori del teatro 7 (cosa mai successa!) per andare a prendere i Maneskin. Per finire col definire “geniali” le trovate di Achille Lauro, che si battezza in orario ancora per bambini, alla faccia del rispetto per chi ha ancora fede. Non rimarrebbero che i comici. Un Fiorello sfiorito perfido nella trovata del bacio fra Amadeus e il direttore rai e un deludente come mai Checco Zalone. Con argomenti spesso che si sposano alla volgarità spicciola. Rimangono se non altro le emozioni, quelle autentiche, di Morandi, Ranieri, le lacrime di Damiano e della Presentatrice di colore. A meno che non sia solo ilo segnale che non ci resta che piangere.

IL FESTIVAL DEL NON CI RESTA CHE PIANGERE

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