Più che l’uscita di scena è stata la celebrazione di un rito. Quasi pagano. Mai visto nulla di simile per un campione, per quanto grande, che abbandona l’attività. Più che un addio al calciatore Francesco Totti, in arte re di Roma, è stata la beatificazione dell’atleta e dell’uomo. Lui ha incarnato il “verbo” di una squadra amata più che una fede. Santo subito. Alcuni storcono il naso e dicono: non ha vinto molto. E’ vero, ma è anche vero che avrebbe potuto vincere molto di più. Se solo lo avesse voluto, se solo avesse dato ascolto alle sirene che lo chiamavano altrove. Lo stadio era stracolmo, alla fine era una piscina per le lacrime che scorrevano. Alcuni dicono: ma ha guadagnato un sacco di soldi. E’ vero, ma è anche vero che avrebbe potuto guadagnarne molti di più. E non è stato sempre, aggiungono, un esempio di cavalleria sul campo. E’ vero, ma porta sulle gambe i segni di chi cercava di fermarlo a tutti i costi. E allora che cosa fa di lui il “capitano, mio capitano”, come in un velo di poesia (vedi “L’attimo fuggente”), oltre al suo fare sornione, al suo sano prendersi in giro? E alla sua capacità rabdomantica di intuire, prima ancora che il pallone gli arrivi, dove indirizzarlo in un nanosecondo per fare più danni possibili all’avversario? In un’arte che tutti gli hanno sempre riconosciuto. Anche al di là dei confini. Ma il rito che lo ha visto grande sacerdote con gli occhi lucidi ha avuto poco a che fare con le regole del calcio. In lui il popolo dello stadio ha gratificato sì il dispensatore di gioie sportive, di momenti di gloria, ma soprattutto un esempio rarissimo, prezioso, dati i tempi, di fedeltà. Altro che un carabiniere. Fedeltà ad una sola bandiera, fedeltà ad una sola squadra, fedeltà alla sua tifoseria. In una sorta di santa dedizione o devozione. Ed in questo nessuno ha vinto più di lui. Ora dice di avere paura. E’ da capire, non avrà più il ciuccio nella bocca.