Questa la biografia di Innocenzo VIII, Giovanni Battista Cybo, che compare sul Dizionario della Treccani. Non ne condividiamo parecchi punti (a cominciare dall’omissione dell’y greca nel cognome), mentre abbiamo sottolineato con il neretto quelli che ci paiono gli elementi più importanti e più rispondenti alla convinzione che ci siamo fatta, in 25 anni, della vera statura del pontefice, che abbiamo da sempre considerato il vero "sponsor" del primo viaggio colombiano.
INNOCENZO VIII, papa
Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 62 (2004)
di Marco Pellegrini
INNOCENZO VIII, papa. - Giovan Battista Cibo nacque a Genova nel 1432 da Aronne (Arano) e da Teodorina De Mari.
Dopo avere seguito il padre, giusdicente, in varie città d'Italia, il Cibo fu inviato a studiare nelle Università di Padova e di Roma. Del suo periodo giovanile, poco documentato, si sa che ebbe almeno due figli naturali, Teodorina e Francesco, detto Franceschetto, che riconobbe e allevò pur senza sposare la madre. Alla morte del padre, avvenuta nel 1457, abbracciò lo stato clericale e si trasferì in Curia, dove entrò al servizio del cardinale Filippo Calandrini.
Verosimilmente, il suo esordio come chierico di Curia avvenne sotto gli auspici del pontefice Callisto III, che già aveva favorito suo padre. Il passo gli consentì di risolvere il problema della propria sistemazione, mediante il cumulo di benefici fra cui un canonicato a Capua, il priorato di S. Maria di Albaro di Genova e la prepositura della cattedrale di Genova.
Guadagnatosi la fiducia di Paolo II, il 5 nov. 1466 fu promosso vescovo di Savona, quasi certamente contro il volere del duca di Milano, allora signore della Liguria. Fu certo l'ostilità milanese a obbligare il Cibo, una volta morto Paolo II nel 1471 e succedutogli Sisto IV, amico degli Sforza, a cedere il vescovato savonese, scambiandolo con l'assai meno redditizia diocesi di Molfetta, di cui prese possesso il 16 sett. 1472.
L'inimicizia del duca di Milano incoraggiò il Cibo a cercare un influente protettore alla corte di Roma nella persona di Giuliano Della Rovere (il futuro Giulio II), cardinal nipote di Sisto IV, del quale condivideva i sentimenti di opposizione al dominio milanese sulla Liguria e la propensione a guardare alla Francia come alla potenza europea che avrebbe meglio tutelato a un tempo la libertà di Genova e l'onore della Sede apostolica.
Patrocinato da Giuliano, il suo avanzamento nei ranghi della Curia romana conobbe un decisivo successo quando fra 1471 e 1473, sia pure in via provvisoria e congiuntamente a Francesco da Toledo, il Cibo ricoprì l'ufficio di datario pontificio. L'assunzione ai più alti onori non cambiò il suo carattere, che rimase improntato a docile affabilità, qualità complementare alla sua mentalità di funzionario e cortigiano.
Obbedendo alla logica della spartizione del potere curiale tra le due fazioni capeggiate dai suoi nipoti, i Riario e i Della Rovere, Sisto IV conferì, il 7 maggio 1473, il cappello rosso al Cibo, il quale confluì nel partito cardinalizio guidato da Giuliano Della Rovere.
La posizione clientelare rispetto a Giuliano fece sì che il Cibo si ritrovasse, fino all'elezione a pontefice, nella condizione di "cardinale povero", dotato cioè di un reddito inferiore alle necessità del suo rango e pertanto bisognoso di sussidi da parte del suo patrono. Come cardinale, il Cibo non si distinse in modo particolare: svolse con diligenza alcuni incarichi, quali la legazione di Roma nell'estate del 1476, durante l'assenza di Sisto IV, allontanatosi per paura della peste; e la legazione in Toscana per procurare la pace tra Firenze e Siena, a seguito della guerra della congiura dei Pazzi. Venne anche destinato a una legazione in Germania per procurare la pace tra l'imperatore Federico III e il re d'Ungheria, Mattia Corvino, ma la missione non ebbe corso.
La sua mitezza gli valse la fiducia di Giuliano Della Rovere nel momento in cui questi meditò di perpetuare quella supremazia nel Collegio cardinalizio che aveva conquistato durante la seconda parte del pontificato di Sisto IV. Alla morte dello zio (12 ag. 1484), Giuliano si accinse a porre un'ipoteca sulla successione al soglio pontificio; non potendo ricercare la tiara per sé a causa dell'ancor giovane età, fu sul Cibo che si appuntò la sua strategia di capofazione.
Il conclave si aprì il 26 agosto. Due giorni dopo ebbe luogo il primo scrutinio, nel quale Giuliano riversò i suoi voti su Marco Barbo, l'autorevole cardinal nipote di Paolo II; ottenne così l'effetto di spaventare la fazione avversaria, che vide inaspettatamente vicino il successo di un veneziano dal carattere inflessibile e dalle posizioni antagoniste a quelle della lega tra Milano, Firenze e Napoli. Quando dunque in seconda battuta, e avanzando anche profferte simoniache, Giuliano mise avanti il Cibo quale alternativa al Barbo, trovò una pronta accettazione da parte dei cardinali-principi Sforza e Aragona, che trascinarono dietro di sé i loro aderenti. I negoziati si svolsero in tutta rapidità nella notte del 28 agosto; all'alba del 29 agosto, Giuliano Della Rovere disponeva già di 18 voti su 25 in favore del Cibo, che alle 9 del mattino venne acclamato sommo pontefice con il nome di Innocenzo VIII.
Paffuto in viso e di carnagione bianchissima, I. VIII soffriva di miopia e aveva salute cagionevole: durante il suo pontificato cadde continuamente vittima di violenti attacchi di febbre, e già nella primavera del 1485 lo si diede per morto. Fu salvato dalle cure dei suoi medici, Ludovico Podocataro e Giacomo da San Genesio; ma durante periodi anche lunghi dovette essere sostituito al governo della Chiesa da un cardinale reggente, che fu di solito Marco Barbo.
La salute malferma rafforzò la fama, che presto gli toccò, di personaggio fiacco e arrendevole: uomo atto più a essere consigliato che a consigliare altri, lo giudicò l'ambasciatore fiorentino, che lo ritrasse come asservito a Giuliano Della Rovere. In realtà, I. VIII non era privo di una propria visione delle cose, ma difettava dell'attitudine al comando ed era sprovvisto dei mezzi militari e finanziari di cui un papa abbisognava per tradurre la propria sovranità in capacità effettiva di governo.
Con l'elezione di I. VIII, il clan Della Rovere si affermò come il vero padrone della corte papale: Giuliano si trasferì al palazzo apostolico, dove avrebbe svolto le funzioni di grande consigliere del nuovo pontefice, soprattutto per la politica temporale della Sede apostolica. Suo fratello Giovanni, prefetto di Roma, assunse la carica di capitano generale della Chiesa. Un terzo fratello, Bartolomeo vescovo di Ferrara, ebbe la custodia di Castel Sant'Angelo.
Per impulso di Giuliano Della Rovere, all'esordio del suo pontificato I. VIII si propose di risollevare il prestigio della Sede apostolica in Italia, non esitando a imboccare nei rapporti con gli Stati italiani, in particolar modo con il Regno di Napoli, la linea dello scontro frontale. Giunto a Roma il 20 ott. 1484, Alfonso d'Aragona duca di Calabria, primogenito del re di Napoli Ferdinando I, venne ricevuto onorevolmente; ma alla sua richiesta di rinnovo dell'investitura delle città pontificie di Benevento, Terracina e Pontecorvo, ebbe un rifiuto a cui da Napoli si rispose con la minaccia di un confronto militare al quale I. VIII era del tutto impreparato. Per guadagnare tempo, I. VIII fece redigere la bolla di investitura delle tre città, ma la depositò nelle mani di Giuliano Della Rovere, il quale pensò intanto a rinsaldare i rapporti con Venezia. Invogliata da una serie di concessioni, fra cui la revoca delle censure lanciate da Sisto IV durante la guerra di Ferrara, la Serenissima mise il suo capitano Roberto Sanseverino a disposizione del Papato: un gesto che incitò I. VIII ad affrontare senza deflettere le rappresaglie napoletane.
Al principio dell'estate del 1485 Ferdinando d'Aragona ricusò di pagare il censo dovuto al Papato per l'investitura del suo Regno: palese il suo desiderio di rendere ineffettiva l'autorità feudale rivendicata dalla Sede apostolica sul Regno di Napoli da più di due secoli e ribadita dalla bolla di investitura a suo tempo emessa da Pio II in favore dello stesso Ferdinando.
Il 29 giugno 1485, festa dei Ss. Pietro e Paolo, termine consueto per il pagamento, l'ambasciatore napoletano si presentò al papa conducendo soltanto la chinea bianca, senza portare le 8000 once d'oro previste come censo annuo; fu rimandato indietro con minaccia di citazione al Tribunale apostolico per insolvenza. Si aprì così un contenzioso dalle conseguenze gravissime, che avrebbe potuto portare, qualora l'atto di inadempienza fosse stato ripetuto nel tempo, alla deposizione del sovrano aragonese.
La conflittualità fra il re di Napoli e il papa divenne insanabile a seguito dell'intromissione, attivamente procurata da Giuliano Della Rovere, dell'autorità pontificia nelle agitazioni interne al Regno di Napoli, che negli ultimi mesi del 1485 sarebbero sfociate in una rivolta generale contro la permanenza al trono della casa d'Aragona.
Il motore della ribellione fu il partito angioino della nobiltà del Regno, fattosi portavoce della paura che in molta parte del baronaggio e dei ceti cittadini incuteva la prospettiva del prossimo avvento al trono del duca di Calabria, despota odiato per i suoi modi sleali e sanguinari. Nell'estate del 1485 i baroni ribelli mandarono a richiedere la tutela del papa, ricordandogli che la Sede apostolica, in quanto sovrano feudale, rappresentava il supremo tribunale d'appello davanti al quale Ferdinando e Alfonso avrebbero dovuto dare conto dei loro soprusi. L'invocazione trovò ascolto soprattutto da parte di Giuliano Della Rovere, coinvolto nella vicenda per ragioni familiari dal momento che suo fratello Giovanni, che nel Regno deteneva il ducato di Sora, era imparentato attraverso la famiglia della moglie con i Sanseverino, principi di Salerno e di Bisignano, capi della congiura baronale.
Su consiglio di Lorenzo de' Medici, re Ferdinando adottò nei confronti di I. VIII una strategia intimidatoria, il cui perno fu l'ingaggio degli Orsini per una campagna che avrebbe trasformato la loro guerra di fazione contro i Colonna, amici di Giuliano Della Rovere, in una ben orchestrata devastazione del territorio laziale, diretta a mettere in ginocchio il pontefice.
I. VIII affrontò con inflessibilità le prime battute del conflitto: con una bolla datata 14 ott. 1485 prese in sua protezione i baroni appellanti e la città dell'Aquila, ribellatasi al re di Napoli in seguito alla proditoria cattura di Pietro Lalle Camponeschi, conte di Montorio. Al palazzo apostolico dominavano i cardinali Marco Barbo, sostenitore dell'opzione filoveneziana del Papato, e Jean Balue, che reggeva le fila dello schieramento filofrancese in terra italiana; oltre naturalmente a Giuliano Della Rovere, tessitore di un'intesa tra il Papato e Genova diretta a fornire uno scalo marittimo in Liguria alla potenza francese. Prese così forma il piano mirante a organizzare la discesa nel Regno di Napoli di un principe della casa d'Angiò, dotato di forze e di diritti sufficienti a detronizzare gli Aragona, nel caso in cui costoro non fossero stati espulsi dalle forze congiunte del Papato e del baronaggio ribelle.
Per accelerare i preparativi della spedizione pontificia nel Regno, I. VIII convocò a Roma Roberto Sanseverino per nominarlo gonfaloniere della Chiesa. Giunto il 10 novembre da solo, il 30 Roberto prestò giuramento e, benché fornito di pochi effettivi, si fece incontro a un nemico che aveva aperto le ostilità con inaspettata prontezza.
Con una marcia a tappe forzate alla testa di un piccolo esercito, Alfonso di Calabria era entrato nello Stato pontificio e, dopo essersi congiunto con Virginio Orsini, si era attestato a ponte Nomentano. Finanziata dal denaro fiorentino, la manovra decise le sorti del conflitto: gli Aragona stornarono un'invasione dagli effetti devastanti, mentre fu il papa a subire l'attacco in casa propria. Il tracollo fu evitato grazie all'energica tempra di Giuliano Della Rovere che, avvalendosi dei partigiani colonnesi, guidò personalmente la resistenza e sferrò audaci colpi di mano contro gli Orsini, compresa la devastazione delle loro case a Montegiordano. Il cerchio stretto attorno a Roma venne spezzato il 24 dicembre, con l'arrivo della compagnia del Sanseverino; ordinato il contrattacco, nel gennaio 1486 Roberto riprese ponte Nomentano e occupò Mentana, costringendo l'impaurito duca di Calabria ad abbandonare il suo esercito per rifugiarsi a Pitigliano, signoria degli Orsini.
La guerra antiaragonese chiamò in causa altre potenze, fra le quali l'Ungheria, il cui re Mattia Corvino nella primavera del 1486 mandò a Ferdinando, suo suocero, un contingente di armati, promettendo di spalleggiarlo nel caso in cui, spostando la lotta contro il Papato sul piano spirituale, avesse fatto appello al futuro concilio.
I. VIII chiamò in aiuto l'imperatore Federico III d'Asburgo, che tuttavia non fu in grado di far sentire la sua presenza sul suolo italiano. Prese di posizione più vigorose giunsero da parte dei re di Spagna, Ferdinando e Isabella, che proprio in questo frangente cominciarono a intravedere la possibilità di ingerirsi negli affari d'Italia. Dato però che i re Cattolici erano ancora impegnati nella guerra contro il Regno di Granada, il loro intervento arbitrale, finalizzato a tutelare allo stesso tempo la permanenza al trono dei loro cugini napoletani e i diritti della Sede apostolica, si limitò alla sfera della diplomazia.
Esauritasi ogni altra speranza di soccorso esterno, le attese del papa e dei baroni ribelli si concentrarono sul re di Francia, Carlo VIII, e sull'appoggio militare e finanziario che questi avrebbe dovuto accordare a Renato II d'Angiò, duca di Lorena, per la spedizione alla riconquista di un regno sul quale la sua casata vantava antichi diritti. Il progetto si sarebbe però arenato in conseguenza dell'indisponibilità a finanziarlo dimostrata dal giovane re di Francia e dai reggenti, suoi zii.
Dagli alleati italiani del Papato, la delusione maggiore venne da Venezia che, seppur nemica del re di Napoli, non uscì dalla neutralità. Quando anche da Genova giunsero segnali di disimpegno, Giuliano Della Rovere si vide costretto a partire precipitosamente, il 23 marzo 1486, alla volta della città ligure, per curare personalmente il rilancio dei suoi piani. Sarebbe tornato a Roma solo il 12 settembre, quando ormai i destini della guerra avevano dimostrato l'infondatezza dei calcoli del partito antiaragonese alla corte pontificia.
L'assenza da Roma di Giuliano, il principale artefice della linea bellicista del Papato, logorò la determinazione di I. VIII alla lotta, man mano che si profilava la disfatta. Il mancato affondo del Sanseverino, condottiero avido e infido, diede al duca di Calabria e agli Orsini il tempo di riprendersi dalla sconfitta e riaprire la campagna in una condizione di superiorità numerica, fattore che portò alla sconfitta del Sanseverino ai primi di maggio a Montorio.
Con l'arrivo dell'estate del 1486, fu chiaro che le truppe sanseverinesche non sarebbero più state in grado di congiungersi alle forze del baronaggio ribelle del Regno: I. VIII si piegò alla necessità della pace e scrisse a Giuliano Della Rovere e a Renato, duca di Lorena, di sospendere i loro preparativi. Diede incarico di intavolare i negoziati al cardinale Giovanni Michiel, il quale concluse l'accordo con Gian Giacomo Trivulzio e con Giovanni Pontano, rispettivamente capitano e segretario di re Ferdinando: i due, recatisi segretamente in Vaticano, approvarono in via interlocutoria, la notte del 9 agosto, i preliminari del trattato di pace, il cui testo venne siglato ufficialmente l'11 agosto.
I capitoli di pace furono quanto mai onorevoli per il Papato: premuto dall'urgenza di estinguere la rivolta baronale e di neutralizzare la minaccia francese, Ferdinando si dimostrò cedevole e si impegnò a riconoscere la sovranità feudale del papa, a cui avrebbe pagato il censo annuo più gli arretrati. Offrì inoltre piena amnistia ai baroni ribelli e promise ai cittadini dell'Aquila la libertà di passare alla soggezione alla Chiesa. Ma alla luce degli avvenimenti successivi è legittimo supporre la malafede in un sovrano che si sottopose a tutti questi obblighi con l'intenzione di trasgredirli non appena sventato il pericolo. Avuta certezza della pace, il 13 ag. 1486 Ferdinando attirò in Castel Nuovo di Napoli la maggior parte dei baroni ribelli, ai quali aveva promesso il perdono, e li fece gettare in prigione, dalla quale molti di loro non sarebbero usciti vivi; procedette poi a completare la vendetta catturando i loro familiari e confiscandone i patrimoni. Nel settembre rioccupò L'Aquila, facendovi uccidere il vicario pontificio.
Nel maggio 1487 Ferdinando d'Aragona dichiarò invalido il trattato di pace, mandandone notifica a Milano e a Firenze, che pur figurando come potenze garanti della sua osservanza non reagirono per paura. Il culmine di tale catena di affronti fu raggiunto il 29 giugno: arrivato il momento di versare il censo, Ferdinando ricusò nuovamente l'impegno, nella certezza che nessuna potenza italiana o straniera si sarebbe mossa a difesa del Papato.
Comprendendo che era l'isolamento della Sede apostolica sul piano internazionale a consentire a re Ferdinando di farsi beffe dei patti, I. VIII decise tardivamente di ripristinare un pacifico modus vivendi con le potenze italiane. Non ne avrebbe ricavato altro che una serie di insoddisfacenti compromessi, che gli attirarono il biasimo dei curialisti partigiani dell'onore ecclesiastico.
Nella seconda metà del 1486 strinse una formale alleanza con Venezia, che egli intendeva mantenere segreta ma che Giuliano Della Rovere, che ne era stato il promotore, rese di dominio pubblico. Constatata l'improduttività di tale legame, I. VIII fu costretto a cercare nuove intese sullo scacchiere italiano, trovando il proprio interlocutore privilegiato in colui che era reputato il più sagace governante d'Italia: Lorenzo de' Medici. Questi subentrò con successo a una serie di sfortunati tentativi di Ferdinando, che aveva pensato di comporre per via matrimoniale la vertenza col Papato, proponendo di maritare una propria nipote a Franceschetto Cibo, figlio del papa, da questo tenuto fino ad allora nell'ombra. Caduta nel vuoto la profferta del re di Napoli, fu Lorenzo che riuscì a persuadere I. VIII dei vantaggi di un'alleanza dinastica fra suo figlio e la casata dei Medici, attraverso la quale sarebbe stata assicurata al Papato l'amicizia di Firenze.
Il matrimonio tra Franceschetto e Maddalena, figlia di Lorenzo de' Medici, fu deciso nel febbraio 1487 e celebrato il 20 genn. 1488. Il 13 nov. 1487 giunse a Roma la sposa, che il 18 dello stesso mese partecipò al palazzo apostolico a un banchetto offerto dal papa. L'episodio, che contravvenne alla regola secondo cui non era permesso alle donne di intervenire ai pasti del pontefice in Vaticano, fu ripetuto nel novembre 1488, quando I. VIII diede un convivio per le nozze di Peretta Usodimare, figlia di sua figlia Teodorina. Nell'uno e nell'altro caso I. VIII trasgredì la consuetudine che imponeva ai prelati di tenere nascosti i propri figli naturali; con l'ostentare e festeggiare, sia pure in una sede domestica, la propria prole, I. VIII si tirò addosso una reputazione di insufficienza morale che tuttora lo accompagna, e che gli attribuisce un numero di figli illegittimi assai superiore a quello reale.
Il parentado con Lorenzo de' Medici ebbe l'effetto di ridimensionare l'autorità di Giuliano Della Rovere, soppiantato dal fiorentino nel ruolo di grande consigliere del pontefice. Malgrado il suo ascendente sul papa, Lorenzo de' Medici dovette durare fatica per convincere I. VIII a elargire a Franceschetto sostanziose concessioni di signorie e di proprietà: solo nel febbraio 1491 il papa si decise a conferire al figlio l'investitura della contea dell'Anguillara. Almeno in parte, tale reticenza si spiega con il fatto che il caso di Franceschetto non aveva precedenti, essendo lui il primo figlio di un pontefice a beneficiare pubblicamente di investiture feudali di terre della Chiesa.
Il carattere di Franceschetto, uomo fatuo e vizioso, causò un matrimonio infelice alla giovanissima Maddalena. Dalla loro unione nacque un'illustre progenie: Innocenzo, che fu creato cardinale da suo zio, Leone X; Caterina, moglie di Giovanni Maria da Varano, signore di Camerino; Lorenzo, che, sposando Ricciarda Malaspina, diede origine al ramo marchionale dei Cibo-Malaspina, signori di Massa. Nell'immediato, la più importante conseguenza della congiunzione dinastica tra la famiglia del papa e quella egemone a Firenze fu la creazione, il 9 marzo 1489, di un cardinale di casa Medici, nella persona del tredicenne Giovanni, figlio di Lorenzo: il futuro Leone X. Suprema affermazione del prestigio goduto dal Medici al cospetto del papa, il gesto di favore fu propiziato dagli ingenti prestiti del banco Medici, ma poté essere presentato anche come un atto nepotistico, mediante il quale I. VIII puntò ad ancorare alla potenza familiare medicea il destino della propria discendenza.
L'intesa con il Medici produsse risultati positivi già nell'estate 1487, quando Osimo, ribellatasi all'autorità papale per istigazione del condottiero Boccolino Guzzoni, fu sottomessa grazie all'intervento di Lorenzo. D'altro canto, il legame di sangue avrebbe ridotto I. VIII alla subalternità a quella "politica dell'equilibrio" per mezzo della quale il Magnifico mirava a potenziare il proprio ruolo di arbitro tra le potenze italiane, con finalità conservative dello status quo.
Sempre nel 1487 il papa inviò il proprio segretario Jacopo Gherardi a Firenze e a Milano, con l'incarico di combinare una lega tra i due Stati e Venezia contro il re di Napoli; ma la missione del Gherardi fallì anche perché Lorenzo de' Medici non era disposto a provocare la rovina della casa d'Aragona, pur lavorando sotterraneamente per limitarne lo strapotere. Sul capo di re Ferdinando pesava un'incognita assai minacciosa, rappresentata dall'istruzione di un processo che I. VIII ordinò a suo carico dopo la dichiarazione di insolvenza del 29 giugno 1487. Il processo venne tenuto segreto, ma qualche notizia di esso trapelò nell'autunno successivo, quando si riseppe pure che, alla terza citazione consecutiva per lo stesso reato, che sarebbe caduta il 29 giugno 1489, il Tribunale apostolico avrebbe potuto decretare la scomunica e la privazione del trono per il sovrano aragonese.
Una grave crisi in Romagna nella primavera del 1488 e lo scoppio nell'autunno di un tumulto a Perugia fornirono la misura dell'impotenza di I. VIII, papa senza denaro e senza alleati effettivi, incapacitato a regolare di propria autorità le tendenze centrifughe racchiuse nei conflitti interni allo Stato della Chiesa.
Il 14 aprile il conte Girolamo Riario venne trucidato da un gruppo di congiurati che invocarono il passaggio di Forlì alla soggezione immediata alla Sede apostolica. I. VIII si dimostrò propenso ad accettare la dedizione dei Forlivesi, ma fu dissuaso dal concorrente intervento di un forte esercito milanese, mandato dagli Sforza a tutelare il mantenimento di Forlì e Imola sotto la signoria dei Riario, loro parenti. Ripiegò allora su una soluzione che affermasse almeno indirettamente la sovranità della Chiesa sulle due città e inviò in legazione il cardinale Raffaele Riario, nipote del defunto signore. Lungi dall'esaudire i desideri di I. VIII, il cardinal Riario lavorò a consolidare la trasmissione ereditaria della signoria in suo nipote Ottaviano, al quale il papa, anche dietro le insistenze di Lorenzo de' Medici, fu indotto a concedere l'investitura vicariale, il 18 luglio 1488.
Nel frattempo, il 31 maggio, era caduto vittima di una congiura anche il signore di Faenza, Galeotto Manfredi. Ne seguì una competizione tra Firenze e Milano per il protettorato sulla cittadina romagnola in cui il pontefice ebbe un ruolo del tutto secondario, per giunta strumentalizzato da Lorenzo de' Medici al fine di risolvere la vertenza a favore del proprio Stato.
Un altro smacco fu inflitto a I. VIII nell'aprile 1488 da Mattia Corvino, che riuscì ad acquisire per alcuni mesi la signoria sulla città di Ancona, dove le bandiere pontificie vennero ammainate e sostituite con quelle ungheresi. Benché di breve durata, l'episodio, da ascrivere a riflesso delle rivalità commerciali fra Ancona e Venezia, allora in lega con il Papato, dimostrò con quanta facilità poteva andare perduto il principale porto pontificio dell'Adriatico.
Conseguenze più durature ebbe l'affermazione delle tendenze autonomiste del Comune di Perugia, fomentate da Firenze per mezzo dei Baglioni, suoi protetti. Desiderosi di assestarsi alla guida del governo cittadino, fin dal 1487 i Baglioni avevano impresso alla lotta tra le fazioni perugine una piega decisamente lesiva delle prerogative sovrane della Chiesa. Per porre un freno a tali sviluppi, nel dicembre di quell'anno I. VIII inviò a Perugia, in qualità di governatore, suo fratello Maurizio Cibo, che però non raggiunse l'obiettivo della sua missione; né vi riuscì Franceschetto Cibo, inviato a sua volta nel luglio 1488. Istigati dal re di Napoli, i Baglioni cercarono l'occasione propizia per un colpo di Stato e la trovarono nella seconda metà di ottobre 1488, con lo scoppio di una lite patrimoniale con gli Oddi, loro principali rivali: cacciati gli Oddi da Perugia, i Baglioni instaurarono un regime oligarchico indipendentista, da loro guidato. Poco frutto sortì la successiva legazione, nel novembre 1488, del cardinale di Siena, Francesco Todeschini Piccolomini (il futuro Pio III), che riuscì a difendere la sovranità eminente del Papato sulla città, temperando l'anelito autonomista dei Perugini, ma dovette accettare la preminenza quasi signorile dei Baglioni nelle strutture del governo cittadino.
Nella primavera del 1489 i re di Spagna tentarono senza successo di interporsi nella controversia tra il re di Napoli e la Sede apostolica, inquietati dalla risolutezza con cui, all'approssimarsi della terza citazione consecutiva, I. VIII notificò di essere pronto a procedere al castigo previsto dalla legge canonica.
Dopo che, il 29 giugno 1489, il re di Napoli ricusò nuovamente il pagamento del censo, il pontefice lasciò decorrere un'ulteriore proroga e poi, l'11 settembre, radunò un concistoro pubblico, nel corso del quale venne data lettura della sentenza con cui Ferdinando veniva privato della corona. L'ambasciatore napoletano replicò iterando l'appello che il suo re aveva già rivolto al concilio.
In previsione di nuovi scontri, I. VIII aveva condotto ai propri stipendi il conte di Pitigliano Niccolò Orsini; ma le sue maggiori speranze riposavano, una volta di più, sulla Francia. Senza ripetere l'errore di invocare la discesa in Italia di un debole principe della casa d'Angiò, stavolta il pontefice si rivolse direttamente a Carlo VIII.
Nel luglio 1489 il re di Francia aveva stipulato a Francoforte la pace con Massimiliano d'Asburgo, evento che lo rendeva più libero di intervenire in Italia. Speculando su tale fattore, poco prima di emettere la sentenza contro Ferdinando, I. VIII gli fece pervenire un appello che lo esortava a scendere nella penisola e conquistare per sé il Regno di Napoli; Carlo VIII però non si mosse, trattenuto dalle guerre con il duca di Bretagna e dalla renitenza della sua corte a mescolarsi negli affari della penisola.
Interessante notare che, sullo scenario italiano, la situazione non precipitò a sfavore del Papato in conseguenza della mancata calata transalpina; pur ritrovatosi inerme a scontare le conseguenze della sfida lanciata a Ferdinando, I. VIII non subì aggressioni. Colui che seppe tenere a freno i contendenti fu Lorenzo de' Medici, il quale impedì, con le arti della diplomazia, che il conflitto si trasformasse in guerra guerreggiata.
Nello stesso periodo venne sbloccata la questione della crociata contro i Turchi, alla quale I. VIII, distolto dal conflitto con il re di Napoli, non aveva potuto fino a quel momento dedicarsi con tutto l'impegno che la gravità del problema avrebbe richiesto.
Nell'inverno 1484-85 I. VIII aveva invano cercato di convocare una Dieta a Roma per organizzare la crociata. Lo scoppio della guerra dei baroni napoletani fece passare in second'ordine il problema, benché esso rappresentasse una delle ragioni di fondo della rivolta antiaragonese nel Regno, sopraggiunta anche a seguito della debolezza dimostrata dalla casa regnante davanti alla progressione ottomana in direzione del Mezzogiorno. La chiamata in causa della Francia, decisa da I. VIII, legò ancor più strettamente la questione della successione napoletana all'organizzazione di una controffensiva nel Mediterraneo, che solo una grande potenza dell'Europa continentale avrebbe potuto promuovere.
Sfumata l'intesa che, fra 1486 e 1487, I. VIII aveva sperato di trovare con gli Asburgo al fine di allestire una crociata con fondi tedeschi, il pontefice sollecitò il concorso della Francia, dove nel novembre 1487 inviò i due nunzi Leonello Chiericati e Antonio Flores. Scopo della missione non era tanto la raccolta di adesioni per la guerra santa, bensì soprattutto la consegna al sommo pontefice del principe turco Djem, fratello minore del sultano Bajazet II.
Rifugiatosi a Rodi nel 1482 in seguito a scontri con il fratello per la successione al trono, Djem vi era stato trattenuto da Pierre d'Aubusson, gran maestro dei cavalieri di S. Giovanni. Necessitato a tenere lontano dalla patria il fratello, che contava gran seguito fra i sudditi e l'esercito, Bajazet dovette addivenire a una convenzione con l'Aubusson, in base alla quale gli avrebbe versato 45.000 ducati all'anno in cambio della custodia di Djem in luogo sicuro. Trasferito in un priorato dei cavalieri di Rodi in Alvernia, il principe fuggiasco divenne oggetto delle mire dei re di Francia, d'Ungheria, di Napoli, di Venezia e del Papato: tutti volevano avere nelle proprie mani quel prezioso ostaggio, che garantiva al possessore un'arma di ricatto contro il sultano turco. Nel 1488 I. VIII riuscì a prevalere nella competizione grazie a un'ampia serie di concessioni, volte a gratificare tanto l'Aubusson quanto il re di Francia. Arrivato a Roma il 13 marzo 1489, Djem venne ospitato al palazzo apostolico, dove il papa gli tributò grandi onori e gli consentì ogni genere di svaghi, compresa la libera circolazione nel giardino, sempre sotto la sorveglianza di un drappello di cavalieri di Rodi.
L'acquisizione dell'ostaggio turco fu una delle vittorie più celebrate del papato di I. VIII, che si sentì abbastanza forte da rilanciare l'antico proposito di coordinare la crociata e indire, l'8 maggio 1489, una Dieta papale a Roma, da tenersi nella primavera dell'anno successivo.
L'assemblea fu inaugurata il 3 giugno 1490, con un discorso in cui il pontefice presentò il panorama politico come assai favorevole alla controffensiva cristiana verso l'Oriente ex bizantino, facilitata dalla concomitante liberazione di Djem e da un attacco del sultano d'Egitto contro Bajazet II. L'indizione della guerra santa venne prospettata per l'arco di cinque anziché di tre anni, con la partecipazione complessiva di 15.000 cavalieri e 80.000 fanti cristiani, più un congruo numero di navi. Gli ambasciatori presenti sembrarono accogliere positivamente tali programmi, ma rimisero ogni decisione ai rispettivi sovrani; il congresso venne sciolto il 30 giugno, con l'impegno di riaprirlo non appena fossero giunti concreti segnali di adesione alla crociata, che però non pervennero mai. Il fronte antiturco era stato nel frattempo debilitato dall'improvvisa morte di Mattia Corvino; il successivo scoppio delle dispute fra il suo successore, Ladislao, e gli Asburgo affondò qualsiasi ipotesi di mobilitazione delle potenze europee centrorientali per la crociata.
Ritrovatosi solo, I. VIII proseguì ugualmente nella sua linea e condusse con vigore la partita contro Bajazet II, fino a respingere l'accordo che questi gli propose mediante un'ambasceria, giunta a Roma il 30 nov. 1490, con la quale veniva offerta la tranquillità delle coste dell'Adriatico in cambio della promessa di non liberare Djem.
Le conseguenze più dolorose per I. VIII, a causa del disimpegno dei principi europei dai suoi progetti, emersero nel contesto della politica italiana, dove, fra la seconda metà del 1489 e la prima metà del 1491, si inasprirono i colpi inflitti dal re di Napoli alla Sede apostolica al fine di modificare i termini dell'accordo di pace.
Con il sopraggiungere dell'estate del 1491 le ritorsioni di Ferdinando si fecero insostenibili: il 29 giugno si ripeté il consueto invio della chinea senza il denaro del censo feudale, mentre in varie zone dello Stato della Chiesa, in primo luogo le Marche, aumentavano gli atti di insubordinazione all'autorità pontificia sobillati dal re di Napoli. Nell'estate del 1491, in seguito a controversie di confine, gli abitanti di Ascoli sferrarono l'assalto a Offida, uccidendovi un funzionario papale; quando I. VIII diede ordine al conte di Pitigliano di andare a sedare il conflitto, il re di Napoli mandò in difesa degli Ascolani un contingente di truppe che impedì l'operazione. Nessuna delle potenze italiane chiamate a soccorso si mosse: particolarmente ambigua e deludente risultò la condotta di Lorenzo de' Medici, che con la sua neutralità mise in chiaro che i potentati italiani avevano tutto l'interesse a mantenere aperta una situazione che permetteva loro di tenere Ferdinando sotto scacco e impediva a I. VIII di nuocere agli Stati confinanti.
L'atteggiamento dei governanti italiani nella questione di Ascoli fu la prova definitiva del loro tacito antagonismo nei confronti di una Sede apostolica la cui potenza temporale appariva irriducibile ai loro interessi particolari. Preso atto di tale dicotomia, che nessun trattato di alleanza sarebbe riuscito mai a superare, I. VIII si accinse, nella seconda metà del 1491, a rovesciare dalle fondamenta l'indirizzo fin lì seguito nei rapporti con gli Stati peninsulari.
Fu agevole per lui rappacificarsi con Ferdinando d'Aragona, data la grande convenienza che questi aveva ad accattivarselo onde scongiurare altri ricorsi papali alla Francia. Artefice del revirement aragonese fu il segretario umanista di Ferdinando, Giovanni Pontano, assertore di una quieta coesistenza con la Chiesa quale chiave della conservazione del trono ai suoi sovrani. Su sua sollecitazione, Ferdinando si dimostrò accomodante, offrendo una somma forfettaria di 36.000 ducati quale rimborso dei censi arretrati e proponendo per il futuro di commutare il versamento in denaro nel mantenimento di un contingente di truppe e di navi a disposizione della Sede apostolica. Prevalse però la soluzione alternativa, secondo la quale il censo sarebbe stato finanziato da una decima sul clero, che la Corona avrebbe regolarmente imposto con il benestare della Sede apostolica.
Già abbozzato nel dicembre 1491, il trattato sostitutivo della pace dell'agosto 1486 fu stilato dal Pontano a Roma, dove venne annunziato nel concistoro del 27 genn. 1492 e ratificato il 7 febbraio. Non fu che il primo passo verso un ulteriore e più ampio accordo, finalizzato a legittimare la futura successione al trono napoletano di Alfonso d'Aragona, ponendola sotto l'egida pontificia.
Perno della seconda fase degli accordi pontificio-aragonesi fu il matrimonio che Ferdinando combinò tra un suo nipote, Luigi d'Aragona, marchese di Gerace, e Battistina Usodimare, nipote del papa. Stipulate il 7 febbraio, in occasione della firma del trattato di pace, le nozze ebbero luogo in Vaticano il 3 giugno 1492; per l'occasione Ferdinando, principe di Capua, primogenito di Alfonso d'Aragona ed erede al trono, giunse a Roma con l'incarico di procurare la solenne investitura pontificia del Regno in favore della discendenza di re Ferdinando. Letta in concistoro il 4 giugno 1492, la bolla venne consegnata all'ambasciatore napoletano, che curò il versamento dei 50.000 ducati pattuiti quale donativo da parte del futuro re Alfonso II.
A seguito della composizione del conflitto con la casa d'Aragona, si aprì per I. VIII anche una fase di rimonta nei rapporti con la potenza turca, favorita dall'epocale trionfo rappresentato per la Cristianità dalla caduta di Granada, il 2 genn. 1492.
Tra gli obiettivi della nuova alleanza tra Napoli e la Chiesa fu quello di concertare una risposta comune alle aggressioni turche, a cui Bajazet II rispose moltiplicando i segnali di distensione verso la Sede apostolica. Fra di essi, ebbe grandissima risonanza il dono della santa lancia, la reliquia costituita dalla punta della lancia con cui, secondo la tradizione, s. Longino trapassò il costato di Gesù Cristo. Pervenuto a Roma il 31 maggio 1492, il cimelio venne portato al palazzo apostolico, dove I. VIII lo tenne come oggetto della sua devozione privata; ma nonostante l'omaggio, non recedette dalla linea di una sia pur prudente fermezza verso il sultano. Il 14 giugno I. VIII annunciò all'ambasciatore turco che, nel caso in cui Bajazet II avesse dato l'assalto a qualche Stato cristiano, si sarebbe servito di Djem per suscitare la rivolta contro di lui.
Circa una settimana dopo questa presa di posizione, le condizioni di salute di I. VIII, costantemente soggetto a ricadute negli ultimi anni, presero a declinare. Consunto dai malanni nel clima torrido dell'estate romana, il sessantenne pontefice si spense il 25 luglio 1492, confortato dai sacramenti e da un contegno lucido e dignitoso davanti alla morte.
Sepolto in S. Pietro, il cardinal nipote Lorenzo Cibo commissionò ad Antonio Benci detto il Pollaiolo un monumento funebre in bronzo a lui dedicato che, per la sua bellezza, è uno dei pochi sepolcri papali sopravvissuti alla ricostruzione della basilica vaticana; attualmente lo si può ammirare nella navata laterale sinistra, a un'altezza superiore a quella per cui fu originariamente ideato. Oltre che giacente, I. VIII vi è rappresentato assiso sul soglio pontificio in posizione benedicente, mentre con la mano sinistra regge la santa lancia.
È questa l'unica memoria tangibile del mecenatismo di un papa che commissionò diverse opere di alto livello artistico, in seguito distrutte o radicalmente modificate. Con la riedificazione della basilica vaticana fu abbattuto il sacello che I. VIII aveva eretto per l'ostensione della santa lancia, decorato dal Pinturicchio. L'aspetto originario della villa della Magliana, ricostruita da lui e ampliata da Leone X, è oggi difficilmente leggibile. Alterata dai cambiamenti successivi ci appare anche la villa che egli fece costruire dall'architetto Iacopo da Pietrasanta sul colle del Belvedere (attualmente sede del Museo vaticano delle statue antiche): le ristrutturazioni del XVIII secolo distrussero gli affreschi che la decoravano, opera del Mantegna e del Pinturicchio.
Del raffinatissimo gusto di I. VIII in fatto di musica è indice il fatto che, sotto di lui, la cappella papale annoverò sommi compositori quali Josquin Des Prèz e Heinrich Ysaac. Intrattenne anche buoni rapporti con i letterati, fra cui il Poliziano e i membri dell'Accademia romana, ma non parve molto portato a favorire gli studia humanitatis. Preferì piuttosto promuovere operazioni culturali di recupero della tradizione ecclesiastica, quali la revisione del Pontificale romano, affidata ad Agostino Patrizi Piccolomini, vescovo di Pienza e maestro cerimoniere pontificio: un testo fra i più rinomati della corte papale, approntato con l'intenzione di diffonderlo nelle diocesi della Cristianità e per questo dato successivamente alle stampe.
La tendenza di I. VIII al tradizionalismo fu evidente anche nel campo teologico e pastorale, come dimostrano i due episodi per cui il suo pontificato racchiude un particolare significato nella storia della cultura europea. Il primo fu la condanna delle novecento tesi di Giovanni Pico della Mirandola, atto che impedì lo svolgimento della disputa universale che il principe filosofo aveva indetto per la primavera del 1487 a Roma. A riprova della refrattarietà dell'ambiente curiale alle innovazioni in materia di pensiero teologico, l'affare non venne chiuso con la ritrattazione dell'autore; anzi, nonostante le pressioni del re di Francia e di Lorenzo il Magnifico, I. VIII non accondiscese mai a concedere l'assoluzione a Pico, che venne impartita soltanto dal suo successore, Alessandro VI.
Il secondo episodio è la celebre bolla Summis desiderantes del 5 dic. 1484, documento che indirettamente convalidò un complesso di credenze magico-folcloriche allora ben vive in Germania. Mediante tale bolla, diretta esclusivamente all'area tedesca, I. VIII delegò piena facoltà di intervento per reprimere la stregoneria ai due celebri inquisitori Heinrich Krämer (Henricus Institoris) e Jacob Sprenger, autori del Malleus maleficarum. Il contenuto del provvedimento papale era di natura disciplinare e non dogmatica; mediante esso, si intendeva anzitutto stabilire le competenze delle gerarchie ecclesiastiche in terra tedesca intorno a un problema sul quale vigeva una notevole confusione giurisdizionale. È però indubbio che con quest'atto la Chiesa romana diede il suo avallo al fenomeno della caccia alle streghe, destinato ad assumere proporzioni considerevoli in periodi successivi.
Si ricorderà infine un altro motivo che conferì al pontificato di I. VIII un particolare rilievo storico: l'incremento che sotto di lui ebbe il fenomeno della venalità degli uffici curiali, con la rifondazione di due preesistenti corporazioni di ufficiali di Curia, trasformate in collegi di uffici venali. Il provvedimento venne preso quale estremo rimedio davanti alle ristrettezze finanziarie in cui il Papato precipitò durante la guerra dei baroni napoletani, dopo che I. VIII aveva dovuto dare in pegno ai banchieri la tiara e il bottone papali, per un prestito di 100.000 ducati. Il primo collegio a essere ristrutturato al fine di creare nuovi vacabilia fu quello dei Collectores taxae plumbi, o piombatori, i cui posti nel 1486 vennero portati a 52 e messi in vendita a 500 ducati l'uno. Seguì, alla fine del 1487, la riforma dell'ufficio dei segretari apostolici: il prestigioso collegio, formato fino ad allora da 6 membri solitamente nominati dal papa per motivi di eccellenza culturale, venne portato a 30 membri, con la creazione di altri 24 posti "vacabili", che vennero venduti, e l'imposizione ai 6 segretari precedenti di una tassa, atto che fra l'altro rese il loro ufficio commerciabile. L'operazione, che fruttò alle casse papali ben 62.400 ducati, si collocò sulla scia dell'espansione degli uffici venali inaugurata da Sisto IV e aprì definitivamente le porte della burocrazia curiale alle speculazioni del grande capitale finanziario attivo a Roma.
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