Credere o dubitare? Marco Polo o Cristoforo Colombo? La via della salvezza cristiana si intreccia indissolubilmente con la bramosia di potere che domina spesso l'animo umano. Fidarsi dei racconti scritti da un uomo che viaggiò e vide... o credere che la scoperta del Nuovo Mondo avvenne per caso?
Si possono esaminare carte, si possono esaminare mappamondi. Erano, nella non conoscenza totale dei due emisferi, lavori “in progress”. Per giustificare la presenza di terre “scomode”, che non dovrebbero comparire, dato che verranno “scoperte” solo successivamente, gli studiosi affermano che i geografi ritraevano anche ciò che ignoravano, ma di cui presumevano soltanto l’esistenza. Se non altro per bilanciare il peso dei continenti sulla sfera del mondo. Un ragionamento tanto risibile quanto pretestuoso. Se l’Antartide ricorrente in quelle carte, secoli prima di essere scoperta, tutto sommato, non è molto diversa da quella che conosceremo, perché altrettanto non accade per le Americhe, che non appaiono mai? Perché si disegnerebbe un terra artica al sud inospitale e refrattaria ad ogni colonizzazione, ricca solo di ghiaccio (per la verità si disegna anche un’Antartide popolabile, come nelle ere precedenti)? E non un’India-cornucopia ricolma di ogni ben di Dio, un oriente estremo eternamente vagheggiato, al punto da essere il toponimo corrispondente al paradiso in terra? O dell’Eden si aveva e si doveva avere una conoscenza segreta? O reale, ma forse parziale, tanto da fare credere che potesse essere un’isola o più isole, in un interrogativo non risolto? Che impedisce di poterle chiamare continente?
Anche successivamente alla “scoperta” l’America viene disegnata pezzo dopo pezzo, man mano che si va avanti nella verifica dell’estensione di quelle terre. E se Antilya-Cipango non fosse un’isola, ma un pezzo di America? Una parte di cui qualche lontano navigatore aveva avuto conoscenza? La desinenza in “ango” più che di origine orientale è ricorrente nella lingua attuale del Latinoamerica, specie in riferimento, ma non solo, a località geografiche, prevalentemente messicane (Durango, Quezaltenango, Chimaltenango, Huehuetenango, Chichicastenango…). Mentre ancora oggi vicino a Città del Messico c’è un centro chiamato proprio Xipangu e non lontano da Acapulco Chilpancingo; mentre stupendi tesori di oreficeria sono stati trovati di recente nella zona del Perù settentrionale di Sipan (Xipan, n.d.a.). Nella tomba contenente la mummia del corpo del “signore” una verga doro “era stata messa nella bocca del morto forse l’equivalente andino dell’”obolo di Caronte””(1). Si potrebbe addirittura aggiungere che l’area della civiltà maya, stralciata dal resto del continente americano, è molto più simile alla configurazione del Cipango di quanto non lo sia il Giappone.
Ma veniamo a quello che viene considerato il primo mappamondo sferico, datato 1492, realizzato dal boemo Martin Behaim, in Portogallo. Uno studioso che Colombo conobbe e con il quale si consultò. Che viene considerato uno dei suoi ispiratori. Che venne nella “caput mundi” della cristianità, dove incontrò Toscanelli. Behaim era allievo del Regiomontano, un astronomo tedesco discepolo di Georg Peurbach, grande amico del cardinale Cusano, altra mente universalistica. Ambedue vennero in Italia, anche nella Firenze dei Medici. La cerchia dei sapienti si allarga: Roma ed alcuni nomi continuano ad essere sempre presenti(2). Nell’originale del Behaim conservato nell’Archivio di famiglia a Norimberga il Cipango è situato nell’oceano atlantico, a metà strada fra le Azzorre e il continente asiatico, in una posizione quasi perfettamente intermedia. Se in quel tipo di rappresentazione (non siamo in grado di giudicare il criterio della proiezione) si cercasse di inserire le Americhe, come è stato fatto, sulla copertina e sul retro di un libro del 1992, relativo a “I Francescani sulle orme di Cristoforo Colombo”, il Cipango di Behaim verrebbe ad incidere quasi completamente in territorio americano. In una collocazione che rispetterebbe, sia pure relativamente, la posizione del Messico. Ma in quel mappamondo c’è di più: una grande isola a nord, facente parte di un vasto arcipelago, è chiamata Cathay. Non ha nulla a che vedere con la Cina. Era il Cathay di Colombo?
Le isole degli idolatri
Altri brani di terra di considerevole estensione sono disseminati a nord e a sud del Cipango. Una sorta di mappa frastagliata e sparsa di terre conosciute singolarmente, che Colombo sapeva dovessero costituire un vero continente? Come un “puzzle” da ricomporre in un unico disdegno? Fatta salva la concezione ancestrale (valida anche per i cinesi?) e mai abbandonata, di un istmo che Colombo era certo dividesse le future Americhe. In una intuizione in un certo senso errata e superata, ma in una certezza suggerita da conoscenze antiche e avallata dalle mappe e dai libri di Alessandria. Ipotesi? Non più di quanto non faccia la ricerca scientifica, che dà per verità quelle che verità non sono. Che impone senza un minimo di dubbio, a fronte di parole che ne fanno sorgere anche troppi, che Cipango sia la trascrizione cinese del nome Jik-pen-kuo. D’altronde quella che per noi era un’ipotesi di cui non riuscivamo a liberarci, ma che anzi si è rafforzata con il trascorrere del tempo e con le letture, ha trovato poi un avallo scientifico nell’opera di un grande geografo dei primi del Cinquecento. Si tratta dell’olandese Johannes Ruysch. ”L’Introduzione geografica” di Tolomeo fu l’atlante maggiormente richiesto nel primo periodo dell’Età delle grandi scoperte geografiche e venne più volte ristampato. La prima edizione dopo i viaggi di Colombo venne pubblicata a Roma nel 1507. Talune copie contenevano una rivoluzionaria mappa del nuovo mondo compilata da Johannes Ruysch(3).
Il cartografo nella legenda che accompagna l’illustrazione, precisa che “i navigatori spagnoli si sono spinti fino a questo punto e, in omaggio alla sua grandezza, hanno chiamato questa terra, il Nuovo Mondo. Per quanto rilevante sia stato il loro sforzo, non sono riusciti a esplorarlo compiutamente… oltre il presente termine deve pertanto rimanere imperfettamente definito fino a che non si conosca con certezza in quale direzione esso si sviluppi”. E’ un’autorevole conferma del concetto precedentemente espresso circa la catalogazione progressiva sulle mappe delle terre nuove. Senza proiezioni di fantasia o calcoli sui contrappesi del globo, ma basandosi sulla realtà fino a quel momento convalidata dall’esperienza. Ruysch, nella cui carta il Giappone non compare, aggiunge che “Marco Polo afferma che… c’è un’isola molto grande chiamata Cipango, i cui abitanti adorano idoli e sono governati da un re… La loro terra è ricca di oro e di ogni genere di pietre preziose. Ma per quanto le isole scoperte dagli spagnoli occupino questo spazio, noi non dobbiamo arrischiarci a localizzare qui quest’isola, essendo dell’opinione che quelli che gli spagnoli chiamano Spagnola (l’odierna Repubblica dominicana ed Haiti, n.d.a.) è in realtà Cipango, poiché le cose che sono descritte come caratteristiche di quest’ultima sono state rilevate anche a Spagnola in aggiunta all’idolatria”(4).
Finalmente uno scienziato che è fuori dal coro e che preferisce non “arrischiarsi”. Ma nell’opera, alla quale abbiamo fatto riferimento per la citazione, Ruysch viene tacciato naturalmente di “candore”.
Un precursore, Marco Polo, che reca una lampada con l’olio del Santo Sepolcro di Gerusalemme e cerca un’alleanza con i tartari per combattere l’Islam. Un portatore di Cristo, Cristoforo Colombo, che vuole raggiungere isole e terreferme, utilizzarne l’oro, spiegare poi le vele verso le Indie cinesi, per stringere quell’antico patto di alleanza rimasto sospeso; e dirigersi infine con il suo esercito, messo in piedi dall’oro, alla riconquista del santo Sepolcro di Gerusalemme. Due personaggi che, a distanza di secoli, sono, sia pure in maniera differente, attori in prima persona di un disegno unico, che fa capo alla chiesa di Roma. Una staffetta, all’ombra di missionari e di ordini cavallereschi, per un progetto mai accantonato. Due esploratori diversi da tutti gli altri esploratori. Alla ricerca di un “Gran Cane” che, con la fama della sua potenza e della sua generosità e con le sue pretese alla “monarchia universale”, aveva suscitato un grande interesse ed esercitato un immenso fascino. Ben presto era divenuto una figura allegorica una sorta di metafora politico-escatologica(5).
Per volere della cristianità
Cosa aveva detto Kubilay Khan e cosa aveva mandato a dire tramite l’ambasciatore veneziano? “Dimandogli del papa e della chiesa di Roma e di tutti i fatti e stati di cristiani...”, chiedeva al pontefice di inviargli un gran numero di sacerdoti (“anche cento savi della legge cristiana”), per “mostrare chiaramente agli idolatri ed alle altre specie di credenti che la loro legge non era d’ispirazione divina, ma di tutt’altra natura, che cioè tutti gli idoli da loro tenuti a casa e da loro adorati erano cosa diabolica; degli uomini, insomma, capaci di mostrar chiaramente, per forza di ragione, che la legge cristiana era superiore alla loro... ed io mi battezzerò. Quand’io sarò battezzato tutti i miei baroni e signori si battezzeranno essi pure; e dopo di loro terranno il battesimo i loro sudditi. E così ci saranno più cristiani qui che non nei vostri paesi”(6).
La “plenitudo” delle genti realizzata, la buona novella diffusa in tutti gli angoli del mondo, la rivelazione-apocalisse a portata dell’uomo terreno, per ricongiungerlo al mondo celeste. Sono frasi, concetti, messaggi che non si possono affidare ad un mercante. Specie in un tempo in cui il rango pubblico e l’estrazione sociale erano categoricamente rispettati. Chi era veramente Marco Polo? Anche lui traspare, a volte, come un cavaliere fantasma. Un laico all’apparenza, come Colombo, investito di una grande missione Cosa c’era scritto, oltre a quello che conosciamo, nel suo libro andato perduto? Che è perseguitato, nella successione delle “mirabilia” e delle testimonianze, da una fama, che ha sottolineato soprattutto l’aspetto dell’iperbolica esagerazione medioevale? Il che ha fatto sì che tutto il “Milione” sia passato alla storia come una inattendibile “fanfaronata”. In una rilettura puramente letterale, quando il segno e il simbolo erano una delle chiavi di interpretazioni del meraviglioso. In contrasto con il prestigio di un testo, che quanti erano interessati alle esplorazioni studiavano con attenzione, come uno dei resoconti di geografia “moderna” e rivelatrice, per quanto riguardava il lontano oriente e le terre incognite. La distanza temporale che intercorre fra la spedizione di Marco Polo e quella di Colombo è molto lunga. Ma questo è un tipo di considerazione legata al nostro modo di pensare. Allora lo scorrere degli anni e dei secoli fluivano in una sorta di stagnazione aliena dal cambiamento. In un corso delle idee, che subiva una decelerazione dovuta anche alle molteplici forze poste ad ostacolo del progresso. Il Rinascimento è un ribollire di idee rivoluzionarie, soggette però ad un freno continuo. Si avverte ovunque una tensione fisiologica verso la mutazione, che esige riforme planetarie. Ma se il nuovo deve avanzare, mentre da sempre le maggioranze non sono disposte ad accettare le rivoluzioni, in che modo e in che tempi deve avvenire la mutazione? Basta guardare all’evento-crac, derivato dalla scoperta stessa delle Americhe. Occorreranno decenni e secoli, perché il Mondo Nuovo venga metabolizzato a livello mondiale. In questo tipo di mentalità imperante i duecento anni intercorrenti fra Polo e Colombo occupano il tempo di un sospiro. A legare indissolubilmente i due personaggi, al di là delle letture preferite dal navigatore, c’è la figura insostituibile del papa di Roma. Che disponeva, in varie forme, dai missionari, ai realizzatori del viaggio-pellegrinaggio, agli scienziati e ai geografi di tutte le informazioni e dei veri 007 del tempo. In un afflusso costante di notizie e di primizie, che non aveva corrispettivi in nessun altro potere temporale. A dispetto delle ambizioni universalistiche dei vari imperatori, saladini o khan. L’imperatore, il saladino o il khan unico era solo a Roma. Solo Roma conosceva l’”otro mundo”. Solo Roma con le sue chiavi, poteva aprirne le porte. Solo Roma aveva il diritto-dovere di stabilire il come e il quando. In modo che il corpo cristiano non ne potesse risentire in maniera sconvolgente. Le masse, il popolo dei credenti, come quello dei sudditi e ancora oggi dei cittadini, vanno preparati lentamente. Tutto ciò che muta il corso della storia ha bisogno, in certi casi, di una incubazione progressiva, senza traumi. Quando la scintilla definitiva scocca, provocando il rogo di ciò che è già noto e rivelando l’ignoto, è come se l’uomo della strada ne fosse informato ormai da tempo. Maturo, assuefatto alla “rivelazione”. In un avvenimento che, per quanto incredibile, appare ormai scontato. In una sorta di liberazione auspicata ed attesa dal dubbio. Perché questo accada occorrono persone, che abbiano le qualità e lo spessore morale per portare a termine compiutamente e in completa segretezza l’esito positivo dell’innesto del non previsto, ma ormai prevedibile, nel previsto. Sono quelle che potremmo definire le rarissime “cavie generazionali”. Marco Polo sembra una di queste. Cristoforo Colombo è una di queste.
Il “Grande Cane” chiama. Quando Roma risponderà? Solo quando potrà: quando avrà la certezza di non fallire. La conflittualità dei tempi, l’equilibrio precario del mondo sono fra i motivi continui del rinvio di un progetto già sulla rampa di lancio. Marco Polo lascia alla posterità il suo racconto, il domenicano Francesco Pipino lo rielabora. Censurando passi che sembrano, più che un’eresia, una dichiarazione di intenti. Accomunando gli interpreti di un disegno che non si perderà fino a Innocenzo VIII e Colombo, tanto per restare nell’ambito della ricerca. Cosa aveva ancora mandato a dire Kubilay di così sconvolgente da essere cassato nella versione del monaco domenicano? “Sono quattro profeti che sono adorati, e ai quali fa reverenza tutto il mondo”, avrebbe detto il Gran Khan ai Polo: i cristiani che adorano Gesù, i Saraceni Maometto, i Giudei Mosé, i Buddisti Buddha. “… e io faccio onor e reverenza a tutti quattro, cioè a quello ch’è il maggiore e più vero, e quello prego che mi aiuti”(7).
Un’apertura mentale universalista. Che verrà ridotta, in linea con il progredire della storia, a una visione trinitaria, a tre soli grandi profeti. Quale il “maggiore e più vero”? E’ questo il grande tema, che trascorre in un unico fluire, senza frattura alcuna fra Medioevo e Rinascimento. E’ questo l’interrogativo, che porterà a dare risposte anche sul piano della scienza, che avanza ormai da tempo a rivendicare la sua presenza-esistenza. La scienza significa raziocinio. Fede e chiesa, sotto qualsiasi latitudine, hanno (a ragione) paura della ragione. Ci vuole poco, perché la pura “ratio”, scarnificata del sacro, diventi una scheggia impazzita e incontrollabile. Accadrà. La fede ne sarà quasi soffocata.
Utopistica fratellanza?
Kubilay incarna il nuovo Alessandro il Macedone, che è fra i simboli ricorrenti dell’alto medioevo. Il Nipote di Gengis Khan, dalla madre cristiana e sposato a una cristiana, appartiene alla genia di quanti potrebbero “riunire tutta la terra e dominarla con leggi reali e giuste assicurando benessere pace buoni traffici e viaggi protetti sulle rotte ben vigilate…” un “leader”, “che mette il potere al disopra di tutto, anche della religione, e che, anzi considera il potere come moralizzatore della religione stessa. La sua tranquilla affermazione che essere amico di ogni religione e rispettare ogni rito gli permette di governare bene avrebbe sorpreso persino Niccolò Machiavelli”. Marco non si sorprende: accetta, e registra accuratamente: “singolarmente equilibrato appare Marco Polo sulla religione… L’uomo davvero “senza lettere” (lo sarebbe anche Colombo, n.d.a.) che è Marco, ha trovato unico al mondo, nell’azione di affrontare serenamente ciò che non sappiamo, la poesia del conoscere, l’umiltà di sentire gli uomini diversi e uguali. La sua testimonianza rompe i limiti dello spazio e del tempo; ma ancor più ci libera dai limiti che abbiamo dentro di noi e quasi rende reale l’utopia della fratellanza” (8).
Universalismi, fratellanze, utopie, Machiavelli. Temi e nomi che incontreremo ancora. Mercanti, marinai, trafficanti di oro e di pietre preziose. Dovrebbero essere sensibili più ai richiami delle sirene materiali che a quelle dello spirito. Personaggi singolari nell’analfabetismo imperante. Dettano e scrivono moltissimo. Guardano al diverso senza restarne scandalizzati, si occupano di religione, di evangelizzazione. Hanno porte spalancate presso tutti i re del mondo. Quello che ci resta, di quanto hanno messo o fatto mettere sulla carta, è il risultato di copie delle copie. Tutto può essere vero, tutto può essere falso. E molto falso potrebbe essere intervenuto posteriormente ad inquinare il vero. Per renderlo meno credibile. Operazione elementare nel campo della disinformazione. Senza contare le censure, i passi cancellati. Eppure da Marco Polo a Cristoforo Colombo il filo sotteso di verità permane. Come una scia indelebile. Basta saperla o volerla guardare. Ci riescono più facilmente i dilettanti. Come l’attore cinese che, nello sceneggiato televisivo della Rai, impersonava il “Grande Cane”. Gli venne chiesto, in un’intervista, quale fosse il messaggio di Marco Polo. Per replicare: “se ne avesse uno solo di messaggi mi preoccuperei. In realtà ne ha parecchi. Marco Polo è diverso dagli altri esploratori: non è andato a scoprire delle terre, ma a conoscere delle genti. Pensi che allora l’Europa era convinta di essere il centro del mondo. Altrettanto pensavano i cinesi. Marco Polo è stato l’inventore in un certo senso della distensione tra Est e Ovest. Colombo aveva portato a casa le patate, il tabacco e altre cose importanti (in questo caso il dilettante non conosce a fondo Colombo, n.d.a.). Marco Polo l’ideologia della comprensione fra i popoli. Debbo aggiungere che una certa “filosofia della scoperta” di Marco Polo influenzò Colombo che prese appunti dal “Milione”(9).
Un tandem materiale e spirituale, che avrebbe completato il periplo del mondo. In modo da fare combaciare l’alfa con l’omega. Non a caso il prologo poliano “Nel nome del Signore Nostro Gesù Cristo figlio del Dio vivo e vero, amen” era indirizzato (utilizziamo la versione di un codice francese, custodito presso la Biblioteca Nazionale di Parigi e non quello più riduttivo di fra’ Francesco Pipino) a “Seignors emperaor et rois, dux et marquois, cuens, chevaliers et b(o)rg(oi)s e toutes gens”(9). Singolare compagnia per un mercante illetterato. Ambizione sfrenata, vanagloria supponenza? O un messaggio neppure così cifrato per la lettura di chi poteva e doveva andare oltre le cose meravigliose, che infiocchettano la narrazione? Si avvicinava il momento giusto, il momento dei giusti? Forse, ma i momenti giusti hanno bisogno di una serie di circostanze tanto fortuite quanto favorevoli. Non fu così. “La prima fase, inauguratasi a metà Duecento si può dire col primo concilio di Lione, si esaurì nel terzo quarto del secolo successivo per una serie di fattori: il disgregarsi dell’impero mongolo e il chiudersi della Cina all’interno delle proprie frontiere, il montare della potenza ottomana che – installata fra Balcani e penisola anatolica – intervenne a recidere o comunque ostacolare gran parte dei legami viari diretti fra Europa e Asia profonda, la folgorante avventura di Tamerlano e il dissesto nel quale essa lasciò le regioni che aveva sconvolto; l’aprirsi per l’Europa, con la peste del 1347-1350, d’un periodo di lunga crisi depressiva, a onor del vero già avviata prima, che non poteva non influire anche sulle sue prospettive commerciali, l’esaurirsi della prima spinta missionaria avviata negli anni Quaranta del Duecento ma già annunziata dal viaggio in Egitto di Francesco d’Assisi e che difatti aveva veduto come suoi protagonisti gli Ordini Mendicanti”(10).
Bisognerà attendere la metà del Quattrocento, perché il filo interrotto possa essere ripreso. Per una nuova, lenta avanzata. Poi Costantinopoli, con la sua caduta, segnerà la diana indilazionabile per l’Occidente. Vivere o morire? Oriente o Occidente? Dipenderà da chi raggiungerà “per primo” le coste e l’Eldorado dell’America-Cipango. Dove anche i cinesi, come informa Marco Polo, erano sbarcati da secoli.
L’umanità sterminata delle “tre Indie” doveva essere ricondotta nella sfera cristiana e l’Islam fermato. Il tempo stabilito da Dio era ormai giunto a scadenza. Il regno divino non poteva aspettare. E’ Franco Cardini a rilevare che “con l’epica crociata ci si trova in una dimensione di “pugna spiritualis”, di psicomachia: da una parte i guerrieri cristiani, paladini della Luce alla testa dei quali marciano i santi cavalieri e gli angeli guerrieri – da san Giorgio a san Giacomo all’arcangelo Michele - dalla parte opposta ecco schierarsi le falangi delle Tenebre guerrieri mostruosi e demoniaci guidati da capi dai nomi d’inferno”. Lungo il cammino della Luce San Giorgio, San Giacomo e il santo gigante, San Cristoforo, avanti a tutti.
1) Archeo, numero 4, aprile 2001, De Agostini Rizzoli Periodici, pag. 77.
2) Taviani Paolo Emilio, Cristoforo Colombo la genesi della grande scoperta, De Agostini, Novara 1982, pag. 133.
3) Nebenzahl Kenneth, Atlante di Colombo e Le Grandi Scoperte, Finmeccanica 1991, pag. 58.
4) Nebenzahl Kenneth, op. cit., pag. 58-59.
5) Cardini Franco, op. cit., pag. 94.
6) Zorzi Alvise, op. cit., pag.57-58.
7) Zorzi Alvise, op. cit., pag. 55.
8) Polo Marco, op. cit. 2, pag. 41-42-43 della nota introduttiva a firma Maria Bellonci.
9) Marco, op. cit. (1), pag. 38.
10) Cardini Franco, op. cit., pag. 45.