Ai primi del Cinquecento, un grande geografo, l’olandese Johannes Ruysch è l’autore di una clamorosa affermazione che coincide con quanto sosteniamo da oltre 25 anni. Lo scienziato, sulla cui carta il Giappone non compare, scrive che «Marco Polo afferma che … c’è un’isola molto grande chiamata Cipango (il presunto Giappone, in un errore marchiano che si continua a protrarre), i cui abitanti adorano idoli e sono governati da un re … La loro terra è ricca di oro e di ogni genere di pietre preziose. Ma per quanto le isole scoperte dagli spagnoli occupino questo spazio, noi non dobbiamo arrischiarci a localizzare qui quest’isola, essendo dell’opinione che quelli che gli spagnoli chiamano Spagnola (l’odierna Repubblica dominicana con Haiti, n.d.a.) è in realtà Cipango, poiché le cose che sono descritte come caratteristiche di quest’ultima sono state rilevate anche a Spagnola in aggiunta all’idolatria». Lo stesso valga per l’antropofagia. Difatti il passo più sorprendente contenuto nei “Commentari reali degli Incas” di Garcilaso de La Vega afferma che «Il Padre Blas Valera, parlando delle antichità del Perù e dei sacrifici che gli Incas rendevano al Sole riconoscendolo per padre, dice quanto segue, e lo cito alla lettera: “Nella qual venerazione, i successori rendevano al Sole grandi sacrifici di pecore e di altri animali, mai però di esseri umani, come a torto sostengono Polo e quanti lo hanno seguito”». E’ evidente che anche Blas Valera come Garcilaso identificano il Cipango con territori delle Americhe, in questo caso il Perù.
GARCILASO DE LA VEGA E I COMMENTARI REALI DEGLI INCA
Da L’AVVENIRE sabato 23 aprile 2016
Viva Shakespeare! E viva anche Cervantes! Ma perché la festa sia completa manca un terzo urrà, da riservare all’IngaGarcilaso (nelle foto), come si firmava lui, o Garcilaso de la Vega detto el Inca, come preferiscono i moderni. Distinzione comunque opportuna, visto che il primo scrittore latinoamericano fu anche omonimo del poeta lirico castigliano Garcilaso de la Vega (1510-1536), con il quale era peraltro imparentato, e nemmeno troppo alla lontana. Storia straordinaria, quella dell’Inca, romanzesca in sé e giustamente trasformata in romanzo da una scrittrice italiana di casa in America del Sud, Laura Pariani: uno dei suoi primi libri, La spada e la luna (Sellerio, 1995), si ispira alla vicenda biografica di Garcilaso, considerato come personaggio emblematico nel passaggio – temporale e geografico – tra vecchio e nuovo mondo. Mai come in questo caso per mettere ordine occorre partire dalla fine, e cioè al 23 aprile 1616. È il giorno in cui a Madrid muore Miguel de Cervantes e, a guardare il calendario, è anche quello in cui William Shakespeare muore a Stratford-upon-Avon. È il motivo per cui vent’anni fa, nel 1996, l’Unesco ha proclamato il 23 aprile Giornata mondiale Del libro e del diritto d’autore. Per via della morte congiunta di Shakespeare e Cervantes, certo. Ma nella notte tra il 22 e il 23 aprile 1616 – come correttamente ricorda l’Unesco – a Cordova, in Spagna, muore l’Inca Garcilaso. Garcilaso nasce a Cuzco, capitale del Perù precolombiano, il 12 aprile 1539 da padre spagnolo, Sebastián Garcilaso de la Vega y Vargas, e dalla principessa inca Isabel Suárez Chimpu Ocllo. A dispetto del nome altisonante, il conquistador è un modesto uomo d’armi che si destreggia come può fra i tumulti del Nuovo Mondo, stringendo e sciogliendo alleanze militari, ma anche spezzando al momento opportuno il legame – mai sancito dal matrimonio – con la nobildonna indigena da cui sono nati Garcilaso e la sorella Leonor. Il futuro scrittore si stabilisce in Spagna nel 1561, per ottemperare alle volontà testamentarie del padre. Non tornerà mai più in America e la sua vita, d’ora in poi, sarà quella del tipico intellettuale dell’epoca, compresa l’assunzione degli ordini minori. Al momento dell’arrivo in Europa, in ogni caso, l’Inca ha già maturato quella che – mutuando una fortunata espressione dell’antropologia contemporanea – si potrebbe definire la sua “coscienza meticcia”. Se nella Brevissima relazione della distruzione delle Indie (1542) il vescovo domenicano Bartolomé de las Casas aveva denunciato la disumanità del trattamento che i colonizzatori avevano riservato agli indigeni, nelle sue opere l’Inca Garcilaso rovescia la prospettiva, assumendo il punto di vista di una civiltà che ha autonomamente raggiunto un elevato grado di raffinatezza culturale e di complessità sociale. Per quanto «idolatri», come lui stesso li qualifica, gli inca sarebbero addirittura giunti a intuire in una delle loro principali divinità, lo spirito creatore Pachacámac, un’immagine o figura dello stesso Dio cristiano (per inciso: in modo forse interessato lo scrittore nega con fermezza la pratica del sacrificio umano in età incaica). Dopo aver dedicato nel 1605 La Florida dell’Inca all’impresa di Hernando de Soto (l’edizione italiana, curata da Aldo Albonico per San Paolo, risale al 1996), il cadetto di don Sebastián si applica con assiduità sempre maggiore alla composizione dei grandiosi Commentari reali degli Inca , la cui prima parte esce nel 1609, seguita nel 1617 dalla pubblicazione postuma della seconda, conosciuta come Storia generale del Perù. Si tratta di un capolavoro assoluto della prosa spagnola, oltre che di un’inesauribile miniera di notazioni storiche e antropologiche (la prima sezione copre il periodo incaico, la seconda comprende le mosse dall’arrivo degli spagnoli). La diffusione di questi testi nel nostro Paese si deve alla caparbietà e all’erudizione di Francesco Saba Sardi (1922-2012), singolare personalità di viaggiatore e polemista che firmò la traduzione sia dei Commentari(Rusconi, 1977, ora disponibile nei Tascabili Bompiani) sia della Storia generale (Rizzoli, 2001). Il legame dell’Inca con l’Italia è del resto profondo, e precede di molto l’interesse dimostrato da autori come Saba Sardi e Laura Pariani. Una delle primissime prove letterarie di questo classico venuto dal Perù fu infatti una versione dei Dialoghi d’amore di Leone Ebreo, trattato fra i più influenti nell’ambito del neoplatonismo rinascimentale.