Prefazione
Desidero salutare questo libro felice, felice perché è una delle rare opere che facciano sperare nella possibilità, oggi, di un ponte lanciato fra la scrittura in versi e il grande pubblico. Paradossalmente felice: perché in nessun verso, in nessuna piega del discorso cessa di risuonare una nota cupa, tragica. Tanto nella prima parte, dove sfilano gli adolescenti personaggi di una nostrana Spoon River in terza persona, i dannati dell'illusorio piacere, quanto nella seconda parte, dove passano le vittime e i testimoni degli anni di piombo, ci appare sempre aperta e sanguinante la ferita inferta al nostro tessuto sociale, alla nostra inerme fraternità, alla nostra fiducia che tanta tecnologia, tanto genio scientifico e tanto benessere possano, tanto più in mancanza di guerre, rendere migliore il mondo.
Lasciando da parte in questo caso, per esigenze anche pratiche di discorso, la nostra formazione crociana e quanto ne rimane, ricordiamo che ci sono testi di poesia che privilegiano il plot, la storia, la narrazione, l'antico contenuto o il senso, e altri, quelli dove il significante s'impone sul significato, quelli insomma che hanno fatto dire a Jacques Chardonne. "Quando uno scrittore ha stile, di quello che ci racconta può non importarci un bel nulla".
A quale categoria ascrivere questo esile libro (ché di libro si tratta e non di una raccolta di poesie, data la coerenza tematica)? Alla prima, certo. Eppure, nonostante la voluta povertà linguistica, non si può certo affermare che questi "quadri" manchino di stile; hanno un ritmo preciso che non si smentisce mai, hanno un tono unitario, una purezza rappresentativa ben riconoscibile e (quello che conta, e permette di superare qualsiasi problema di categoria) un'insolita capacità di coinvolgimento morale ed emotivo del lettore.
Montale si domandava se un'opera di poesia possa anche essere un romanzo. Nel caso di Ruggero Marino penso si possa rispondere senz'altro di si. E' anche un teatrino, ricco di caratteri e situazioni, con suggestive variazioni sul tema, sottolineato da immagini ricorrenti (i poveri morti riversi come fantocci, burattini, marionette cui sia stato spezzato il filo). Tanti personaggi, tutti presi nel tunnel di quella droga che si avvia a essere la connotazione negativa centrale dei nostri decenni, un tragico tunnel di nebbia, inconsistenza e morte, come in certi racconti orientali dove c'e un'ombra in forma di persona, un inferno in veste di paradiso, appunto, una presenza impalpabile che attira con suadenti tinte traditrici fino all'orlo o al fondo dell'abisso. Si comincia con la quattordicenne "allegra", di nome Addolorata, e si continua con ragazzi e ragazze il cui tragitto verso il nulla, unidirezionale e pur scontato com'è, non ingenera monotonia ma anzi sorprende per la fantasia delle varianti. Alcuni esiti sono di tono particolarmente alto (Morena tra fiocchi di neve "che scendono/come lacrime bianche/come i fiori gelati dei ciliegi"). Senso di tremenda solitudine, di persona trasformata in oggetto risibile e inerte, ma Marino pone questa solitudine, con raddoppiato effetto drammatico, a contrasto con la desolazione di chi rimane, di chi raccoglie i cocci o le membra dei giovani saltati dalla finestra o affioranti da un lago come meduse esiliate per sempre dal mare. Poveri sopravvissuti, poveri anche loro: madri e fratelli che parlano, si sente, dialetti lontani (Napoli, il Piemonte, l'Adige, la Venezia del carnevale) oppure testimoni benpensanti che non riescono a entrare nella tragedia:
"Hanno avuto
quello che si meritavano".
Perché c'è sempre un rogo
nella mente dei giusti.
Maria Luisa Spaziani
Introduzione
Queste poesie di Ruggero Marino, di primo acchito - anche a me, che da tanti anni sono testimone di tragici eventi connessi alla droga - possono apparire cinici, spietati ritratti di morti per "overdose" , di suicidi in carcere, dal balcone.
Sì, la prima impressione è stata: "E' un reporter che ha la pretesa di mettere in versi cronache aride e distaccate".
Ma, andando avanti nella lettura, sono stato preso dal profondo pathos di questa scarna poesia che, proprio per essere così asciutta senza nulla concedere alla retorica, mette la tua coscienza a nudo di fronte al dramma di questo mondo "altro" a questo "corpo da ramazzare con le briciole dei panini", a questa "sporca barbona" morta senza che nessuno se ne accorga, a questi "guerrieri smarriti disertori della vita", a questa coppia suicida che lascia scritto "Perdono, non abbiamo altra strada", a Maria "che ha 24 anni e forse è già morta", a Marco "che non poteva farcela da solo", a Lucia "sagoma di gesso sul pavimento sporco"... e il terribile atto di accusa: di fronte ai corpi arsi sulle rive dell'Adige, Marino raccoglie questo giudizio: "Hanno avuto quel che si meritavano!" e ribatte "perché c'è sempre un rogo nella mente dei giusti". Da Verona a Napoli, da Ivrea a Roma, da Segrate a Rivoli, sulle tombe - se ne hanno una - "sono rimasti i gatti a fargli compagnia, a piangere d'amore contro il cielo e le stelle".
I versi secchi e pungenti di Ruggero Marino sono diretti contro il sonno delle coscienze: non basta, ci dice, pensare "così sbandati ma tanto bravi". Nessuno può ritrarsi, non c'è spazio per 1' assuefazione e il disimpegno.
Grazie, reporter che non ti sei inaridito nella routine delta cronaca; la società ha bisogno dello sdegno rattenuto di uomini vivi come te. Intanto farò leggere le tue poesie ai miei ragazzi e ai tanti amici sparsi in Italia e nel mondo.
Don Piero Gelmini
L'illustrazione in copertina è un quadro della pittrice Cecilia Arguello Sanson.