La mappa di Vinland è il documento che proverebbe un evento in grado di riscrivere i libri di storia: lo sbarco Vichingo in America, 600 anni prima di Cristoforo Colombo. È una leggenda metropolitana, oppure questi abitanti del Nord, con gli elmi cornuti e le navi a forma di drago, avrebbero scoperto il Nuovo Mondo prima del navigatore genovese? Gli storici oggi danno per molto probabile uno sbarco vichingo nell’America del Nord, probabilmente sulle coste di Terranova. Il problema, semmai, è la mancanza di prove certe (e autentiche) di tale avvenimenti. Questo, almeno, fino a quando non è stato accertato che i resti di un antico villaggio sulle coste americane sono proprio di epoca vichinga. Prima di quel giorno, però, si era alla ricerca di prove incontrovertibili. La mappa di Vinland poteva essere una di quelle prove. E qui il dubbio si fa forte.
Gli studiosi sono divisi in due scuole di pensiero: chi sostiene che il documento sia un falso, e chi lo ritiene originale. Sono state fatte accurate ricerche scientifiche, che hanno dato risultati molto contrastanti. Negli anni Ottanta Thomas Cahill, un fisico californiano, basandosi su complicate prove scientifiche, stabilì che la mappa doveva ritenersi autentica, e disegnata intorno al 1440, con uno scarto di qualche anno. Più di 50 anni prima dello sbarco di Colombo, dunque.
L’affermazione di Cahill è stata contraddetta in anni più recenti da nuovi studi, che hanno portato ad una clamorosa dichiarazione: la mappa sarebbe stata disegnata da Joseph Fischer, un gesuita morto nel 1944. Un falso, quindi, ma eseguito con un’abilità sorprendente. Il foglio su cui la mappa è disegnata è autentica pergamena del 1440, strappata da un antico codice. Persino l’inchiostro sarebbe stato “creato” ad arte, utilizzando componenti identici a quelli degli inchiostri medievali. Il punto oscuro è la presenza nell’inchiostro di tracce di anatase, una forma cristallina di biossido di titanio; secondo gli accusatori, il falsario del XX secolo prima disegnò un alone giallognolo, e poi linee di inchiostro nero che avrebbero dovuto produrlo come risultato della presenza di ferro nell’inchiostro stesso. Un liquido, quello usato per scrivere il manoscritto, basato da una soluzione di estratto di noce galla e gomma, con l’aggiunta di nerofumo e minerali ferrosi. Esattamente come il comune inchiostro medievale. Inevitabilmente, la querelle non si è conclusa qui: nuovi studi hanno smentito la teoria del falso novecentesco, sostenendo che nessuno avrebbe potuto compiere un lavoro così accurato.
Perché qualcuno avrebbe dovuto creare un falso di tale fattura, impegnandosi anima e corpo in un progetto a prima vista “strampalato”? Bisogna indagare nella vita personale di padre Fischer, nel periodo della dominazione nazista in Austria. In quegli anni, il Terzo Reich propagandava il mito dei vichinghi come naturali e gloriosi progenitori della “razza ariana”. Di conseguenza nacque un piccolo mercato clandestino di reperti di epoca vichinga (spesso falsi), tra cui molte “prove” dello sbarco in America.
Padre Fischer, forse spinto da un sentimento di rivalsa verso i nazisti, che lo avevano costretto ad abbandonare il suo monastero, disegnò la mappa, infarcendola di simboli e terminologia cristiana. Non solo: sarebbe stato il nunzio apostolico e vescovo di Groenlandia Eric a sbarcare per primo sul Nuovo Continente. Uno smacco totale, dunque, per Hitler e compagni.
Riportiamo fedelmente questo articolo non intervenendo sulle affermazioni dell’autore che le ha pubblicate nel lontano 2005. Noi eravamo a conoscenza che le ultime analisi propendevano per l’autenticità del documento, conservato alla Columbia University. C’è da aggiungere che qualsiasi prova, non solo cartografica, a suffragio di una “scoperta” dell’America, precedente ai viaggi di Colombo, viene sempre accusata di “falso”. Il modo più semplice per evitare complicazioni di varia natura e soprattutto per non mettere in crisi i soloni, che detengono il potere accademico e che dovrebbero fare un insopportabile “mea culpa”: Smentendo di colpo prestigiose e danarose carriere oltre ai molti studi e libri pubblicati. Sicuramente è questo l’impedimento maggiore ad ogni forma di un sia pur possibile e onesto revisionismo o quanto meno confronto. Tanto per fare un esempio dello stile dei baroni posso aggiungere che quasi tutti i colombisti, specie quelli della scuola di Genova, non hanno mai citato Innocenzo VIII (che pure era cittadino genovese). Ora lo fanno mettendo uno un particolare uno l’altro, poi si citano fra loro, ignorando completamente le nostre numerosissime pubblicazioni, comparse talvolta anche in riviste scientifiche. In questa operazione silenzio si distingue soprattutto la professoressa Gabriella Airaldi che nella Superba gestisce l’eredità di Paolo Emilio Taviani, il quale da buon politico aveva il potere assoluto in tema colombiano e fino a ieri era considerato, non solo dai genovesi, il più grande esperto a livello mondiale e che ora viene definito dai suoi ex “colleghi”, che lo citavano servilmente ad ogni piè sospinto (basta guardare la “Grande Raccolta colombiana”), “un appassionato di Colombo”. Un dilettante praticamente come tanti. A me Taviani disse: “Non la riterrò un colombista, ma un colombologo.”. Non mantenne le promesse dato che affermò che avrebbe fatto risuonare la grancassa sulla mia ricerca. Ma almeno lui non mancò di citarmi, anche se non proprio correttamente, proprio nel caposaldo della “Grande Raccolta colombiana”, pubblicata in occasione dei 500 anni della “scoperta” dell’America. Dove inserì un capitolo sul possibile intervento di Innocenzo VIII ai fini del finanziamento del primo viaggio ufficiale del navigatore.