Si professavano duri e puri. Sono morbidi e impuri. Confesso che mi sono sempre meravigliato della parabola irresistibilmente ascendente dei 5 stelle. Come era possibile per un partito nato sul “vaffa” e con un nome che richiama gli alberghi extralusso? Si poteva spiegare solo con l’esasperazione legittima degli italiani per la politica politicante, per le facce immarcescibili dei soliti noti e per la corruzione imperante anche degli ignoti. In un sistema ed in una società non da cambiare, ma da rifondare.
Ora siamo alla resa dei conti. “O Roma o morte”. Il baluardo era là, governarla significava occupare l’intera Italia, fallire può significare lo sgonfiamento del palloncino parolaio del suo leader e dei suoi giovani adepti. In uno scenario da “Corrida” di Corrado. Mentre questa Roma sgangherata e un po’ mignotta, dopo le vergogne di Alemanno e Marino, non si meritava questo ennesimo tragicomico spettacolo. A tre mesi dall’elezione la maestrina, che in campagna elettorale bacchettava tutti, è ridotta a una sgualcita bambolina eterodiretta, che aldilà del figlio portato in consiglio e del gran rifiuto della maglia della Lazio, non ha mostrato nulla di concreto e di nuovo. Così le faide viperine si contendono l’osso in una rissa da osteria. D’altronde cosa ci si poteva aspettare da giovani miracolati, spesso senza arte né parte, portati all’improvviso al successo, al potere, a stipendi da nababbi? Normale che in questa situazione gli appetiti si ingigantissero e tutti si sentissero i prescelti per più alti destini. I Raggi non brillano? Non resta che fare quadrato come fa il Grillo sparlante. Abbandonarla significherebbe prendere atto dell’ennesimo, questa volta macroscopico errore. Mentre a sua volta la canea delle opposizioni si stringe. Quando si era vista tanta acredine anche nei toni degli speaker come in questi giorni? Con la sprovveduta cerbiatta azzannata come non mai da una muta inferocita. E Roma? Alla dea Roma, come nei suoi monumenti, non resta che piangere.